Può essere l’occasione della vita, la finestra che si spalanca sul futuro: il Paese ritrova la strada della crescita e si lascia alle spalle un passato di crisi e sfiducia. Oppure può risolversi in un rinvio: l’Italia guadagna tempo (poco) ma non la crescita, per cui rimane prigioniera del passato e della sua storica, e ormai tanto insostenibile quanto sanzionabile, anomalìa. Il verdetto europeo sul programma italiano di riforme 2016 e le prospettive per gli anni a venire ha il grande pregio di mettere in chiaro la realtà dei fatti nel complesso rapporto tra Roma e Bruxelles.
Ecco le pagelle Ue: l’Italia ora soddisfa regola debito, verifica a novembre.
Il primo fatto è che sono tali e tante le incertezze che gravano sull’Europa (in deflazione) che il suo organo di governo, cioè la Commissione, non poteva che smussare gli angoli invece che acuirli. La politica dell’austerity è in stand-by da tempo dopo aver mostrato tutti i suoi limiti. Il Fiscal Compact è ammaccato, il pareggio di bilancio un’indicazione remota, sui decimali sorgono o s’incrinano le speranze dei governi. Il 23 giugno il Regno Unito decide con un referendum se restare o no nell’Unione europea, a novembre gli Usa eleggono il nuovo Presidente. In Germania (si vota nel 2017) e la cancelliera Angela Merkel gioca la sua leadership sul terreno dei migranti. Poteva la Commissione europea rispolverare un ruolo da feroce guardiano delle regole con l’Italia, Paese fondatore dell’Europa, seconda potenza industriale e (soprattutto) titolare di un debito pubblico che supera il 130% del Pil e le cui potenzialità esplosive sono congelate sotto il mantello della politica monetaria della Banca centrale europea? No che non poteva.
Secondo. Il Governo italiano ha sfruttato bene il momento. Non poteva a sua volta permettersi strappi veri e non lo ha fatto. La coppia Renzi-Padoan funziona. Il premier avanza e incalza, il ministro dell’Economia segue prima da lontano e poi ricuce da vicino, tessendo con pazienza e professionalità il confronto con Bruxelles. Roma ha chiesto molta più flessibilità di bilancio (circa 14 miliardi per il solo 2016) e l’ha ottenuta. Era “un diritto e non un privilegio”, ha detto il commissario Pierre Moscovici. Nessun Paese ha ottenuto mai ciò che ha ottenuto l’Italia. Il successo politico dell’operazione è oggettivo. Terzo. L’Italia cresce, sì, però troppo poco rispetto agli altri Paesi amici d’Europa ma anche concorrenti sui mercati di tutto il mondo. Così come decresce relativamente di più quando s’innestano le stagioni recessive. Non è un problema che scopriamo oggi ed è d’attualità da una ventina d’anni. Nel 2015 il Pil è salito dello 0,8%, nel 2016 il Governo conta di arrivare a +1,2%, l’Istat e lEuropa vedono al momento un +1,1. Questo film va in onda perché in termini di produttività e investimenti l’Italia ristagna da troppo tempo, non è competitiva, non accresce e non fa girare a dovere la sua ricchezza. Combinata alla continua lievitazione del debito pubblico, la bassa crescita è l’incantesimo che andrebbe spezzato, l’anomalìa che si frappone al recupero della fiducia di famiglie e imprese e alla ripresa dei consumi. La deflazione (Europa a -0,2%, Italia a -0,4%) si alimenta anche da questo lato: tutti fermi dietro i vetri di una finestra chiusa, rattrappiti dall’incertezza sul che fare. Quarto. Più flessibilità di bilancio (che non è comunque un rubinetto sempre aperto) significa più soldi. Ma questi vanno spesi al meglio, bisogna scegliere cosa finanziare e cosa no con l’obiettivo di schiodare la crescita da livelli troppo bassi. Qui si gioca del resto la scommessa politica del premier Matteo Renzi, e ora la politica nazionale prospetta nella sostanza una lunga stagione elettoralistica: prima le elezioni comunali in città-simbolo (a partire da Roma e Milano) e poi il referendum sulla riforma costituzionale Boschi, che sempre di più si va connotando come un sì o no a Renzi e che s’incrocia pericolosamente con la messa a punto e il varo della Legge di stabilità per il 2017. Su cui il governo ha preso ora in Europa impegni precisi il cui rispetto sarà verificato a Bruxelles a novembre, questa volta senza prospettive di sconti. Quinto. Renzi considera il referendum costituzionale un passaggio storico, ed è un altro dato di fatto che la vittoria del no suonerebbe in Europa, negli Usa, sui mercati, come la riprova che l’Italia non riesce a raggiungere la sponda di una democrazia “decidente” e funzionale alla crescita. Ma intanto dovrà decidere anche lui sulla politica economica: imboccare la strada dei provvedimenti a presa rapida, per capirsi sulla scia dei bonus e degli incentivi fiscali a tempo, o giocare la partita a tutto campo, accorciando i tempi, sul terreno delle riforme? Anche la riproposizione, fatta ieri, della riduzione dell’Irpef per il ceto medio va circostanziata e verificata alla luce delle compatibilità di bilancio possibili. Le raccomandazioni avanzate dalla Commissione ricalcano in qualche caso impostazioni risapute (come quella di spostare il carico fiscale dai fattori produttivi a consumi e proprietà, su cui Renzi ha scelto diversamente) ma su riforma della PA, la giustizia civile, i crediti deteriorati, il mercato del lavoro, concorrenza e liberalizzazioni, “ambiente” favorevole a fare impresa, privatizzazioni e spending review, Bruxelles osserva che il lavoro non è finito. Anzi. Del resto, la bassa crescita, con le sue cause e le sue conseguenze che si rincorrono tra loro, non è un mistero. Dati Eurostat come quelli sui livelli di occupazione (età 20-64 anni) si commentano da soli: Europa a quota 70,1, Svezia a 80,5, Francia a 69,5, Germania a 78,0, Regno Unito a 76,9. Italia a 60,5, davanti solo alla Grecia.
Guido Gentili