Un nuovo triangolo per lo sviluppo del capitalismo

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Dagli anni Ottanta abbiamo assistito a un progressivo aumento delle diseguaglianze: i ricchi sono diventati più ricchi, i poveri hanno peggiorato la loro situazione e la classe media si è ridotta, se la ricchezza dell’1% più ricco è pari a quella del resto della società.

Si è inceppato un meccanismo capitalistico che per molto tempo ha assicurato crescita e una soddisfacente distribuzione del reddito, pur con alti e bassi.
Per ristabilire una maggiore equità dobbiamo rassegnarci a un futuro di serena decrescita, per dirla con Latouche?
Il moderno capitalismo si basa sul trinomio proprietà-cartolarizzazione-limitazione della responsabilità personale. Un “triangolo dello sviluppo” dove la tutela della proprietà incentiva l’accumulazione e il godimento dei risultati dell’iniziativa imprenditoriale; il processo di cartolarizzazione aumenta la mobilità dei capitali; mentre la società a responsabilità limitata, scindendo patrimonio personale e aziendale, rende possibile imprese più rischiose stimolando al contempo una continua innovazione. Un triangolo in cui i tre lati si alimentano a vicenda e sono sostanzialmente uguali. Negli ultimi trenta anni ha preso il sopravvento un processo speculativo di finanza alimentata dalla finanza (la degenerazione del processo di cartolarizzazione), in cui è scisso il nesso tra responsabilità di chi decide e conseguenze per chi le subisce.
La spersonalizzazione dell’economia ne ha modificato la forma in un triangolo scaleno, in cui la diseguaglianza dei lati è una metafora delle diseguaglianze dei redditi. Oggi sta emergendo un nuovo triangolo dello sviluppo capitalistico, basato su valori forse antichi, ma sempre più di attualità: il nuovo trinomio è accesso-condivisione-personalizzazione. La società che viene fuori dalla crisi è molto più attenta all’utilizzo che non alla proprietà dei beni, a forme di accesso che ne favoriscano una sempre maggiore condivisione. Preferisco usare più che possedere! Questo fenomeno, oltre che dalla contrazione dei redditi, è determinato soprattutto dalla terziarizzazione che ha trasformato i beni in servizi di cui fruire.
Alla logica dell’esclusione e della rivalità nella proprietà si affianca/contrappone quella della condivisione, la produzione e l’utilizzo di beni relazionali, in cui più aumenta la possibilità di condivisione più cresce il valore del prodotto servizio, secondo le tipiche logiche della rete.
L’utilizzo condiviso richiede una forte fiducia verso quanti partecipano al processo: lo schermo dell’anonimato crea diffidenza, occorre “metterci la faccia”.
La redistribuzione del reddito non è una conseguenza secondaria del processo capitalistico, ma è interiorizzata nell’azione imprenditoriale: “mi conviene” un rapporto più equilibrato tra le parti perché alimenta la fiducia, che è il vero collante delle transazioni, un asset aziendale, per quanto non lo possa scrivere in bilancio.
È sharing economy? Può darsi. Al di là della semantica, serve recuperare la visione di un imprenditore civile e di un processo imprenditoriale che appartiene alla tradizione del nostro Paese, fatto di rapporti nati e accumulati sui territori tra persone e società locali, proiettatisi poi a livello globale.
Un capitalismo attento ai valori di reciprocità, perché, come diceva Albert Hirschmann, “le basi morali della società capitalistica vengono continuamente svuotate e riempite allo stesso tempo”. Dobbiamo lavorare oggi nel riempire il sistema, per proiettarlo verso un futuro di maggiore equità.

di Gaetano Fausto Esposito, Huffington Post