L’Ente, di fatto, è già svuotato. E il suo costo è più che dimezzato: la ministra Boschi parla di super-risparmio riferendosi al bilancio di 5 anni fa, mentre oggi è più che dimezzato. “Fabbrica di aria fritta e consulenze d’oro”. Gli hanno detto di tutto. Ecco la storia del Consiglio nazionale per l’economia e il lavoro, e le ragioni per cui, anche in caso di vittoria del Sì, la sua fine non sarebbe davvero scritta
Ai primi di novembre ci sarà l’audizione in Senato per il rituale parere sulla Legge di stabilità. E poi: va’ a sapere. Potrebbe essere l’ultimo parere prima del requiem definitivo. O forse no. Perché una cosa c’è da dire sul Cnel, il Consiglio nazionale per l’economia e il lavoro previsto dall’articolo 99 della Costituzione: dal 1957, anno della sua istituzione, ad oggi ha dimostrato di avere più vite dei gatti. Sprecone, sciupone, inutile. Fabbrica di aria fritta e di consulenze d’oro. Gli hanno detto di tutto. Ma più lo volevano riformare o sopprimere – in prima fila pure Massimo D’Alema, ai tempi della Bicamerale – e più quello risorgeva. Adesso il Cnel è già svuotato, ma sono Matteo Renzi e Maria Elena Boschi a darlo per morto e sepolto. Annunciando risparmi che vanno ben oltre il possibile.
Dal 2015 a oggi, da quando cioè Renzi ha annunciato la soppressione e tagliato i finanziamenti, ben 40 consiglieri sono fuggiti (oggi sono ridotti a 24) e l’attività del Cnel è quasi paralizzata, le commissioni smembrate, i consulenti e gli esperti volatilizzati. «Potrebbe essere l’occasione giusta per azzerare tutto e ripartire, grazie a una legge ordinaria, con una nuova governance, nuovi obiettivi e nuovi meccanismi di rappresentanza», riflette il neo-vicepresidente Gian Paolo Gualaccini, esponente del terzo settore e grande fustigatore, negli anni passati, dei vizi e degli sprechi di Villa Lubin. «Il modello, magari, potrebbe essere il Comitato economico e sociale europeo (Cese), che a Bruxelles, coi suoi 350 membri, è l’organo consultivo in materia di lavoro per l’Unione europea e le maggiori istituzioni Ue».
Di certo nulla, dopo il 4 dicembre, potrà essere come prima. E giustamente. Basta dire che in quasi 60 anni di vita il Consiglio ha partorito solo undici proposte di legge, e mai nessuna è stata approvata. Molto più numerose, invece, le proposte per strangolarlo, o come minimo riformarlo. Cominciando dal costo. Faraonico. I 121 consiglieri della cosiddetta «terza camera dello Stato» (il cui presidente godeva di autoblu, portavoce, addetti vari e 160 mila euro l’anno di indennità), nel triennio 2008-2010 sono costati ben 18,2 milioni l’anno. E Gualaccini per anni ha denunciato «un assenteismo micidiale».
Per intascare il gettone di presenza di 2.154 euro al mese bastava presenziare per pochi minuti all’assemblea mensile, e l’assenza, al massimo, portava a un taglio del 15 per cento dell’indennità. Di questo simpatico assegno mensile hanno goduto, dal 1948 al 2015, dai sindacalisti (ultima la trimurti Camusso-Angeletti-Bonanni) ai rappresentanti di Confindustria (Emma Marcegaglia compresa), con particolare soddisfazione dei pensionati che a Villa Lubin, la splendida sede del consiglio, avevano trovato una più proficua alternativa alle bocciofile.
Basta scorrere l’elenco dell’ultima tornata di dimissionari, quella di fine luglio: via il presidente Salvatore Bosco, Uil, 75 anni, se ne sono andati anche i vecchietti targati Cisl come Giorgio Alessandrini, classe 1938, ex segretario generale Cisl-scuola; Claudio Claudiani, classe 1948, già segretario generale dei trasporti Fit-Cisl, e Paolo Tesi, classe 1941, già segretario della federazione lavoratori autonomi Clacs-Cisl. Capitanati dal loro più giovane collega Raffaele Bonanni, ex segretario Cisl e pensionato relativamente fresco, hanno lasciato il Cnel dopo l’ultima mazzata arrivata dalla Corte dei Conti: il rinvio a giudizio, per danno erariale, dell’ex segretario generale Michele Dau e degli ex presidenti Antonio Marzano, già ministro alle Attività produttive con Berlusconi, e il suo successore, Bosco, sindacalista ormai famoso per le crociere godute a spese della Uil.
Tutto ciò ha portato acqua, inevitabilmente, al mulino della propaganda Renzi-Boschi: «La soppressione del Cnel porta ad un risparmio annuo di circa 20 milioni», ha garantito la ministra l’8 giugno, rispondendo in aula alla Camera a un’interrogazione di Arturo Scotto e altri deputati di Sinistra italiana. Ma come si fa a risparmiare 20 milioni su una spesa di 9 milioni scarsi? Se nel 2011, con il Cnel al gran completo (121 consiglieri), il bilancio era di circa 19 milioni, nel 2015 (con i consiglieri ridotti a 64) il consuntivo è stato di 8,7?. Dal primo gennaio 2015, come ha deciso la Legge di stabilità, sono state infatti cancellate tutte le indennità, i rimborsi spese e i soldi per le varie attività. Basta consulenze, incarichi e studi affidati agli amici degli amici. «Tutto quello che facciamo oggi noi 24 consiglieri rimasti, lo facciamo per spirito di servizio. Gratuitamente e senza far spendere soldi allo Stato», assicura Gualaccini. A spese dello Stato è rimasto solo il personale, tra i 4 e 5 milioni di euro l’anno, e il costo della struttura, che è sì magnifica ma vecchiotta e dura da mantenere: 3 milioni. Il personale, in caso di vittoria del Sì, era già destinato alla Corte dei Conti, la sede al Csm. Ma non è ancora detta l’ultima parola.
Il Fatto Quotidiano