I media dovrebbero essere di due tipi: quelli indipendenti e quelli di parte. Entrambi sono utili a informare la pubblica opinione. Solo che in Italia i primi sono poco rappresentati mentre i secondi costituiscono la grande maggioranza delle testate o delle trasmissioni. Fra questi ultimi, i meno utili (o, se si vuole, i più dannosi) sono quelli di parte, ma abilmente mimetizzati, media cioè che elaborano la loro politica di informazione sotto false spoglie, impedendo così al fruitore di poter scegliere fra il grano e il loglio, fra il vero (o anche solo l’oggettivo) e il propagandistico.
Vediamo, per farci capire meglio, un argomento molto dibattuto in questi giorni: la legge elettorale. I partiti che sostengono le varie posizioni in conflitto (e i molti commentatori che purtroppo tengono loro bordone) lasciano capire che le loro motivazioni sono utili per poter costruire una legge elettorale migliore, al fine di rendere un servizio più efficace e giusto all’elettore, evitando che ilsuo voto venga deformato, distorto o depredato. Niente di più falso. E se non si chiarisce questo punto, si getta della polvere negli occhi agli elettori che, prima o poi, si rivoltano contro l’establishment che li ha presi per i fondelli, come del resto sta succedendo adesso, in proporzioni e in un trend, che mi auguro, ma non ne sono sicuro, possano non essere irreversibili. I partiti infatti non sono delle educande ma degli eserciti veri e propri, schierati l’uno contro l’altro per ottenere il massimo potere possibile. Una volta, il gioco era più chiaro perché il potere lo si otteneva con gli spadoni e le spingarde. Adesso lo si ottiene con il voto. Ma le motivazioni di fondo per riuscire ad acquisire il potere sono le stesse di sempre. Non è quindi negando queste motivazioni che si rende un servizio alla comprensione dei fatti da parte della pubblica opinione.
Lo scontro sulla legge elettorale non è infatti uno scontro fra buoni e cattivi, come cercano di far capire le parti in causa (e i media che partecipano interessatamente alla tenzone) ma è uno scontro fra partiti che, dalla nuova legge elettorale, cercano di tirare dalla loro parte i maggiori vantaggi possibili. Naturalmente, siccome questo ragionamento (se venisse ammesso) ridurrebbe le motivazioni ideali che determinano gli schieramenti (che sono poi la carne da macello di tutte le battaglie politiche) nessun uomo politico è disposto a riconoscerlo, atteggiandosi quindi come individuo asessuato, con il giglio bianco in mano, impegnato solo al perseguimento del bene comune. Le prime difficoltà sulla legge elettorale modello Renzi vennero sollevate dalla minoranza dem e, in particolare, da Pierluigi Bersani. Essa riguardava la scelta del capolista che, qualora questa legge non fosse modificata, sarebbe eletto indipendentemente dalle preferenze ottenute. Il capolista, in base alla contestata legge in vigore, è designato dalla segretaria del partito. E siccome il segretario del partito è attualmente Renzi (e non Bersani) è molto probabile che gran parte dei sicuri eletti del Pd sarebbero uomini di Renzi e non certo della minoranza dem. Il ragionamento non fa una grinza. Si dà il fatto però che lo stesso Pier Luigi Bersani, con la legge elettorale precedente, da lui mai criticata sul punto, aveva goduto, senza fiatare, di un sistema senza preferenze che gli ha consentito di scegliere nominativamente chi mandare in Parlamento (e non solo i capilista), riducendo i renziani a una sparuta minoranza. Conclusione? L’assenza o le limitazioni alle preferenze, per Bersani, non sono un male in sé, ma solo se avvantaggia l’antagonista nel partito.
Prendiamo un altro aspetto della legge elettorale: il premio dato alla lista (cioè al partito che ha raccolto maggiori consensi), come previsto, appunto, dalla legge in vigore, oppure alla coalizione (cioè all’insieme dei partiti apparentati fra di loro), come chiedono gli avversari di essa. Il primo metodo (premio alla lista) avvantaggiava, al momento in cui la legge era stata fatta, il Pd e danneggiava i partiti di centrodestra ma soprattutto i partitini di centro che sostengono il governo Renzi. Questi ultimi, in particolare, con il premio alla lista, rischiano addirittura di essere spazzati via dal novero dei partiti rappresentati nel prossimo Parlamento. Ma il loro dissenso, pur essendo sofferto, è stato sinora platonico perché i partitini di centrodestra che sostengono Renzi (per intendersi da quello di Alfano a quello di Verdini) non hanno la possibilità di togliere il sostegno al governo Renzi mettendolo così in difficoltà in Senato perché, essendo usciti da Fi fracassando le porte, difficilmente potrebbero rientravi. Anche se in politica nulla è impossibile.
Ma perché il premio alla lista, che era inviso alle micro formazioni di centrodestra che sostengono il governo Renzi, adesso è inviso anche a molti altri esponenti di centrosinistra (compresi addirittura molti renziani) che, fino a prima delle ultime elezioni amministrative, non avevano eccepito nulla sul punto? L’inversione a U sull’utilità del premio di coalizione al posto del voto di lista è avvenuta dopo aver constatato che, con il premio di lista, il massimo beneficiario, se si confermano gli ultimi risultati amministrativi e soprattutto i trend accertati dai sondaggi fatti dopo quest’ultimo voto, sarebbe il Movimento 5 stelle e non più il Pd. Non a caso, Grillo, che fino a poche settimane fa gridava che il voto alla lista era una «vera porcata» che «manometteva la democrazia», adesso, non potendo dire (anche per lui un minimo di pudore c’è ancora) che la «porcata», ora che gli è utile, è diventata improvvisamente una virtù, diffida Renzi dal voler modificare ciò che ha lui voluto fosse approvato.
Pierluigi Magnaschi, Italia Oggi