La lezione che ci lascia Attilio Giordano

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Attilio GiordanoA volte il cielo si prende davvero i migliori. E chi sa scrivere bene, lo fa certo perché legge bene. Ecco, mescolando la fine e l’inizio del bel ritratto che sabato Franco Monteverde, su queste colonne, ha dedicato alla scomparsa prematura, troppo veloce, sommamente ingiusta direi (se qualche morte potesse mai essere giusta), del direttore del Venerdì di Repubblica, Attilio Giordano, mi piace ricordare un giornalista partito da Genova, approdato a Roma e da lì inviato per il mondo, che però la sua città d’origine non l’aveva mai dimenticata. Quanta Genova e quanta Liguria c’erano nei suoi sette anni di direzione al Venerdì, basta sfogliarne uno dei numeri. Quanta nella sua voce, indelebilmente rimasta legata alla terra dove non era nato ma era però cresciuto, anche professionalment e. E quanta nei discorsi che facevamo a tavola, nella nostra osteria preferita, a Roma, assieme a un altro genovese che ci ha lasciato solo pochi mesi fa, suo indimenticato amico, il grandissimo fotoreporter Mario Dondero. Sì, il cielo si prende i migliori. E noi si rimane qui, a descriverli, a raccontarli, a mettere insieme i pezzi dei ricordi, perché la loro presenza ci possa ancora fare compagnia, per rammentare il loro esempio, e intravedere una strada adesso che non ci sono più. Chissà perché venerdì mattina, mentre sono all’estero per lavoro, in un dormiveglia che cerco sempre di difendere perché credo che regali le intuizioni migliori della giornata, pensavo a lui. Jung queste le chiamava “le sincronicità”. Ed ecco che, in capo a un’ora, un collega mi telefona e con molto tatto mi dà la notizia. Pasolini diceva che la morte ha il potere di riallineare in modo fulmineo i momenti salienti della vita di una persona. È così, non c’è niente da fare: non posso allora che mettere uno dietro all’altro i pensieri e gli incontri di trentacinque anni di vita giornalistica, quando conobbi Attilio Giordano. Non lui personalmente, ma la sua firma. La trovai in un editoriale dell’allora direttore de Il Lavoro, Cesare Lanza, che elogiava pubblicamente il suo cronista per non mi ricordo quale inchiesta. Provai un po’ di sana invidia, e di ammirazione. Allora lavoravo al Corriere Mercantile con suo fratello Michele. Eravamo entrambi collaboratori esterni, anzi, e ci facevano stare in una sorta di sottoscala ammezzato, dal quale raramente si poteva accedere al salone redazionale. I due Giordano erano più grandi e più bravi di me, e Michele veniva ammesso spesso in quella sala, che l’avrebbe poi portato all’agognata assunzione, il che voleva dire l’esame professionale, il tesserino rosso da giornalista, un lavoro finalmente stabile dentro un quotidiano, come volevamo nei nostri sogni. Con Michele abbiamo fatto diversi servizi assieme. Poi io scappai a Roma per cercare di riuscire infine a lavorare stabilmente (intuizione forse giusta, allora) e lo persi di vista. Conobbi invece bene Attilio, negli anni di Repubblica. Una volta ci trovammo insieme in Israele, e nel bel cortile dell’American Colony Hotel, a Gerusalemme Est, uno dei ritrovi classici degli inviati di tutto il mondo, ci scambiammo esperienze e impressioni sul nostro lavoro, amato da entrambi in modo esclusivo e passionale. “Non sai quante volte mi hanno fermato o arrestato”, buttò lì Attilio di un evento quasi scontato quando si fa questo mestiere, “e il giornale non l’ha mai saputo”, aggiunse sorridendo. Aveva forti letture alle spalle, eleganza di scrittura (e di abbigliamento, “a me piace portare la cravatta”, mi disse una volta con convinzione, sempre sorridendo), profondità e leggerezza assieme. Univa il fatto di saper governare bene la penna con l’esperienza di direzione in diverse redazioni locali. Non ci volle molto per farlo direttore del Venerdì. “Sai – mi disse contento – ora mi leggo un sacco di riviste americane o inglesi che di solito non vede nessuno”. Da qui i suoi spunti. La curiosità, dote imprescindibile per chi fa questa professione. E, in totale controtendenza rispetto ai tempi, la capacità di scommettere sull’utilizzo degli inviati. “Credo di essere nel nostro Gruppo editoriale quello che ne manda in giro di più”. E aveva ragione a farlo.
Le pagine del Venerdì lo testimoniano. Sapeva rischiare sulle persone, e questo ripagava ampiamente la fiducia che dava ai colleghi. Una volta, diversi anni fa, per la fretta sbagliai completamente un pezzo, e lui, prima che l’articolo andasse in pagina, mi chiamò e disse: “Guarda, cambialo, non lo dico per me. La firma è la tua”. Fu una lezione, anche di eleganza. Se scorro adesso i suoi messaggi sulla posta elettronica (si firmava sempre Attila) sapeva poi apprezzare ed elogiare ampiamente il tuo lavoro. Farlo non è da tutti. Vuol dire anche generosità. Del resto, non avevi davanti a te un cosiddetto “culo di pietra”, cioè un deskista puro che non ha mai scritto una riga e mai messo fuori il naso per un servizio, ma un signor inviato all’estero. Perché i bravi giornalisti sono anche degli innovatori. E Genova era la fissazione di Attilio. A pranzo era il nostro argomento principale (con il calcio, ed eravamo di squadre diverse), assieme al giornalismo. Aveva capito che le contraddizioni della nostra città sono cruciali per questi tempi, dunque le cavalcava fieramente sul suo settimanale. Io per lui ho lavorato poco sui temi di cui mi occupo, per colpevole pigrizia, e proposto quasi niente. Ma quando una volta gli chiesi di affidarmi la copertina di un numero del Venerdì su un personaggio l’ha subito fatto con estrema convinzione e libertà. Fu un bel colpo, di cui rimanemmo entrambi soddisfatti.
Mi piace allora pensare adesso che Mario Dondero e Attilio Giordano, i migliori, i genovesi con cui andavo a pranzo a Roma, scomparsi l’uno a soli sei mesi di distanza dall’altro, se ne vadano ora a braccetto. Posso svelare una mail su Attilio che l’altro giorno Paolo Rumiz ha mandato a tutti noi, immaginando di non fargli torto? “Uomo vero. Ha fatto del Venerdi un grande giornale. Condiviso con lui una sera stupenda un anno fa a Trieste. Ci mancherà”. Sì, Attila, ci mancherai. Non sai quanto. E il rimpianto è ogni volta una sconfitta cocente per non aver colto meglio il valore di ognuno.

Marco Ansaldo, La Repubblica

Addio a Giordano cronista in jeans con la penna più elegante

SE NE È ANDATO anche Attilio Giordano, e la congiunzione allunga mestamente il rosario che ricorda i ragazzi del Lavoro: Giuliano Zincone, Santo Della Volpe, Raffaele Niri… Giordano era il direttore del Venerdì di Repubblica ma era nato e cresciuto a Genova, giornalisticamente, dove, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, l’antico quotidiano dei carbuné vantava firme del calibro di Gad Lerner, Lucia Annunziata e Mariella Gramaglia. Una fucina di talenti. Lui era tra i più giovani. Se lo è portato via un male cattivo, lo stesso che ha decimato le bandiere di quella generazione e non ha lasciato scampo alla moglie, la giornalista del Secolo XIX Chiara Borghese, undici anni fa. Una maledizione nella vita privata e nei legami professionali. Un intreccio di lutti atroce. Per questo preferiamo ricordarlo com’era prima, negli anni degli esordi genovesi: quando era ancora tutto in divenire e la sua compassione intatta, nei confronti degli altri e di se stesso. Bello, colto, ironico ai limiti del tollerabile era stato definito dal suo direttore Cesare Lanza “il cronista in jeans”, non per concessioni all’abbigliamento più sciatto – anzi, adorava la cravatta – ma per la pulizia dello sguardo giornalistico. Fu il primo a denunciare la lottizzazione della Rai in Liguria, con una memorabile inchiesta dove anche i mezzibusti al pesto ammettevano di rispondere ai partiti. Il primo a pubblicare le grottesche lettere dei candidati democristiani alle suore e ai frati genovesi, dove si garantiva attenzione alla salvezza dell’anima nel varo delle delibere comunali. Il primo a rivelare usi e costumi dei massoni locali. «Voglio andare via: che resto a fare, a scrivere del porto?». Era anche questo Attilio Giordano, sprezzante nei confronti di argomenti ritenuti troppo modesti per il proprio ego. «Ho cominciato occupandomi di Sciascia: e ora dovrei andare a fare la cronaca dei quartieri?». Poi però ci andava, e alla fine riconosceva che «la mia più importante esperienza professionale è stata a Pontedecimo. Tu prova ad arrivare lì , scendere dall’auto e trovare una notizia prima di sera». Attilio Giordano lascia una nuova moglie, due figli e mille relazioni interrotte, mille curiosità insoddisfatte. Lo piangono in tanti. Aveva solo 61 anni.

P. Crecchi, Il Secolo XIX