Una foto hi-tech di ciò che si racconta e un piano per il futuro
di Andrea Secchi
Una foto dell’azienda, o meglio una mappa per capire come questa sta raccontando la propria storia e il proprio brand e qual è la percezione del pubblico. Sulla base della mappa, poi, l’elaborazione della strategia di storytelling, un piano di comunicazione che sviluppi i tasselli mancanti. È lo scopo di una nuova soluzione di Ibm, chiamata Cognitive storytelling, che per l’occasione si avvale della collaborazione di Storyfactory, azienda italiana che si occupa di corporate storytelling, di narrazione aziendale, unendo esperti di sviluppo organizzativo e marketing con un gruppo di professionisti di comunicazione visiva, designer e video-maker.
Ma cosa ha a che fare un colosso della tecnologia come Ibm con la narrazione? Di fatto in questa soluzione c’è molta tecnologia all’avanguardia.
Perché il cuore di tutto è ancora una volta Watson, il cognitive computing di Ibm in grado di analizzare, imparare e mettere in relazione dati strutturati e non come immagini, audio e video. Una capacità essenziale, dal momento che il racconto di un brand dipende da come questo si esprime su tutti i canali, in particolare su quelli digitali, dai siti ai social, e non solo con le parole. La soluzione Cognitive storytelling utilizza Personality insight, un servizio della piattaforma Watson Developer Cloud per fare la prima analisi, che richiederebbe un lavoro immane se fatta manualmente.
«Da questa analisi si arriva alla mappa di personalità dell’azienda», spiega Cristina Farioli, direttore marketing e comunicazione di Ibm Italia, «una misurazione della capacità autoriale di narrarsi e se questa corrisponda o meno alle proprie intenzioni. Può accadere, infatti, che si voglia mettere in luce l’empatia, ma dall’analisi si scopre che di empatia col proprio pubblico ce n’è poca e l’azienda viene colta solo come autorevole. È a partire da questi risultati che poi si definisce il nuovo percorso di narrazione». Anche perché in questa analisi si considera anche ciò che raccontano poi a loro volta i propri pubblici, come scrivono del brand e come lo raccontano.
I primi test con Personality insight sono stati fatti due anni fa nel mondo della moda: «paradossalmente, il settore usa poca tecnologia mentre i suoi pubblici ne usano tantissima: blog, social, community», continua Farioli, «per questo la moda è molto esposta alla loro narrazione. Così alcuni brand importanti che pensavano di avere un certo profilo di narrazione si sono accorti che era discordante rispetto alla lettura della narrazione dei propri pubblici. Perciò questo approccio diventa importante e si amplia, perché sposta l’attenzione sul digitale, su come si fa marketing e su quali piattaforme. La tecnologia ormai è differenziante rispetto ai propri concorrenti e accelera la propria strategia di sopravvivenza sul mercato». Oltre alla moda, alla soluzione si sono poi avvicinate imprese del retail e della sanità privata.
Personality insights usa la psicologia del linguaggio combinandola con l’analisi tradizionale dei dati in modo da delineare caratteristiche e tratti della personalità individuale, tanto che è utilizzato anche in campo recruiting o nelle risorse umane. In questo caso è l’azienda e il suo racconto a essere analizzati con tre modelli: il primo delinea le caratteristiche della personalità con cui ci si confronta con il mondo esterno, il secondo rileva gli aspetti di un prodotto che vengono considerati in fase di valutazione dell’acquisto e il terzo identifica i fattori che influenzano il processo decisionale.
«Tutto questo ci restituisce una foto», conclude Farioli, «poi ci si chiede se la strategia di comunicazione puntava su questo. Dal gap si capisce quali sono gli aspetti da rafforzare, i valori da enfatizzare e si costruisce il piano con cui agire»
ItaliaOggi