di Stefania Miccolis
Un piccolo libro di Pier Luigi Celli “Capitani senza gloria” (Codice edizioni, 2016) che mette a nudo vizi e virtù dei manager italiani. In realtà più i primi che i secondi. Parla in maniera approfondita di tutti i tipi, i modelli, gli archetipi di manger che egli ha potuto conoscere e squadrare da cima a fondo, nella sua lunga carriera di posizioni top manageriali in aziende pubbliche e private e con ruolo di direttore generale dell’università Luiss Guido Carli di Roma e della RAI, oltre che di membro dei consigli di amministrazione di Illy e Unipol.
La dedica in apertura ha quel tono ironico ma anche pieno di amarezza che rende bene lo stato d’animo con cui Celli ha scritto il libro “Se l’ironia potesse uguagliare le delusioni, l’impresa italiana sarebbe un luogo di sicuro godimento”. È una frase che non dà scampo all’impresa, come ai manager e al loro entourage di collaboratori, a un intero sistema probabilmente voluto e formato dalla classe politica e quindi da noi: “la classe dirigente che abbiamo e che ci siamo voluti, ha portato al declino anche di queste imprese”. Ma il libro si conclude con una sorta di speranza: “Mi sembra giusto ricordare qui, con riconoscenza, alcuni dei manager di qualità con cui ho avuto il privilegio di lavorare e a cui devo molto, in tanti sensi e per più di una ragione”. Quindi forse non tutto è perduto, e se si seguissero le caratteristiche le doti di queste manager l’Italia recupererebbe anche autostima e orgoglio nel resto del mondo oltre a invogliare le nuove generazioni a lavorare con l’etica professionale con cui si dovrebbe. Perché, continua Celli: “Loro per me restano il volto apprezzabile di una professione che può ancora essere presentata ai più giovani con la certezza di non offrire modelli adulterati. Onore vero a chi merita”.
Si può dire che con questo libro Celli ci alletti con figure drammaticamente divertenti, proprio per la loro bassezza di immagine professionale, alternando questa analisi approfondita ironica triste e sarcastica fra saggistica e narrativa, utilizzando dei racconti più leggeri, per fare capire meglio al lettore, con esempi, cosa accade in quel determinato mondo.
L’autore ha una buona parola per tutti. È come se non si salvasse nessuno. Si parla d’impresa ma il discorso è estendibile a università, istituzioni, pubblica amministrazione. E tutto ciò che male si racconta di loro è dovuto al degrado culturale di un paese. E con il tempo la tendenza in Italia è stata quella di un degrado sempre maggiore.
Chiama i manager “idealtipi”, “ricorrenti figure sempre più simili a veri e propri stereotipi”. Con amarezza dice che purtroppo nonostante egli stesso abbia cambiato le varie posizioni e i vari ruoli, rapporti di lavoro e aziende anche per trovare soddisfazioni più grandi e mondi nuovi e comunque più corrispondenti alla sua etica professionale, la visione dei manager è peggiorata. Hanno caratteristiche tutte uguali e hanno disilluso quel poco di speranza che una persona ha di incontrare capi migliori. Si ripetono le componenti valoriali che caratterizzano il modo in cui si esercitano le varie funzioni di comando: “Molti anni a percorrere imprese di ogni tipo e restare con l’impressione di aver incontrato al vertice capi che non ti hanno lasciato quasi nulla. Non tutti, per fortuna. E non sempre. Ma il rimpianto resta: per le tante occasioni perse e quell’amaro in bocca a masticare incontri vestiti di arroganza e rapporti in cui il potere parla solo di distanza o di insistito disinteresse”. Si ripropone sempre lo stesso schema: dopo anni di lavoro e di contatti e relazioni si può guardare alla ripetibilità e quindi alla banalità di stereotipi che si incontrano. E così è naturale parlare di discesa agli inferi di certe grandi imprese che hanno sempre più perso successo e valore.
L’obbiettivo del libro, dice l’autore, è “consegnare alle nuove generazioni un vademecum dolente di comportamenti a rischio da evitare e, insieme, sollecitazioni pedagogiche a guardare anche in altre direzioni”. Il lettore è costretto a pensare, ed essere scosso da questo libro: e se si trova in una di queste situazioni descritte, in una posizione di potere, sarebbe bene che il libro gli insinui un senso di autocritica.
Si è persa la dignità e va recuperata, e forse potrà essere recuperata anche grazie a questa approfondita analisi che Celli ci consegna attraverso ciò che ha vissuto, che ha sofferto e che per fortuna ora ci rivela dopo lunghi anni di esperienza. Comincia a farci conoscere “i sette vizi capitali più uno” dei management – egocentrismo, arroganza, familismo, invidia, avidità, ignavia, miopia, vendetta. Spiega e scopre le ormai “virtù obsolete”: rispetto, buon umore, generosità, cura, coraggio, equità, ritiro. Ci mette alla larga da quello che nell’ultima parte è paragonato ad un circo, dove ogni figura descritta ogni archetipo, sembra un personaggio della commedia all’italiana: “ne esce uno spettacolo sghembo, tra grandi pronunciamenti e modeste performance, dove la natura umana si diverte a disegnare i prototipi di una moderna commedia dell’arte, purtroppo senza la coscienza delle scarse prospettive dovute alla casualità degli incontri e al destino temporaneo della recita”. Si tratta di “un piccolo campionario esemplare di questi personaggi in cerca di autore”.
Di ognuno dà una visone ben precisa, aggettivi, frasi ironiche, è tagliente e spiega le loro caratteristiche in maniera approfondita, con definizione inequivocabile.
Con questo libro c’è solo da imparare, riconoscere, e mettere in pratica un’etica professionale che faccia emergere il meglio e ci contraddistingua.