Non è tutto oro quello che luccica. La recente sentenza sul caso Erri De Luca emessa dal Tribunale di Torino ed oramai divenuta irrevocabile, pur pervenendo all’assoluzione dell’imputato con la formula più ampia (perché il fatto non sussiste), si inserisce perfettamente nella scia di quella giurisprudenza italiana che non ha voluto mai fare i conti – pur nell’inerzia del legislatore – con la spinosa questione dei reati di opinione e, più in generale, della repressione penale del dissenso in tutte le sue forme. Ma che, anzi, “ha confermato in buona parte l’assetto di tutela ereditato dal regime fascista” (1), non arrivando mai a dare piena applicazione alla libertà sancita dall’art. 21 della Costituzione. La tracce di questa giurisprudenza conservatrice ed illiberale si trovano sparse in tutta la storia repubblicana, a partire da quelle sentenze della Corte Costituzionale che non hanno mai avuto il coraggio di sancire l’incompatibilità dei reati di opinione – quelli contenuti, per intenderci, per la gran parte, nel Titolo primo del codice penale dedicato ai delitti contro la “personalità” dello Stato che arriva a punire condotte come il vilipendio della Repubblica, della nazione italiana, persino l’offesa alla bandiera e, perché no, anche l’offesa ad una confessione religiosa! – con i principi che dovrebbero sorreggere un ordinamento autenticamente democratico e liberale. Per non parlare poi del travagliatissimo percorso che ha impegnato – e impegna tutt’oggi – la nostra giurisprudenza per circoscrivere la punibilità di reati come la diffamazione, ancora oggi spesso utilizzati per imporre censure al legittimo diritto di critica, che, nel bilanciamento degli interessi in gioco, dovrebbe sempre prevalere in presenza di determinati presupposti (come, ad esempio, la rilevanza pubblica delle dichiarazioni). Certo, si potrebbe obiettare che, in un ordinamento non di common law come il nostro, i giudici non possono supplire all’inerzia del potere legislativo. Beh, allora stiamo freschi, perché gli interventi degli ultimi anni – a partire dalla modifica ai reati d’opinione del 2006 fino alla reintroduzione del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale nel 2009 – non solo non si segnalano per il coraggio in questa direzione, ma addirittura rappresentano delle battute d’arresto in un panorama davvero desolante. Soltanto per restare sull’esempio da ultimo citato dell’oltraggio a pubblico ufficiale, si pensi che negli Stati Uniti il diritto di criticare la polizia è garantito in ogni sua forma, anche quando si sostanzia in parole o gesti offensivi, che non solo non portano all’incriminazione di chi offende, ma, al contrario, espongono il poliziotto ad una sanzione disciplinare o al rischio di dover risarcire il danno al cittadino se arresta o cerca di arrestare chi lo insulta. Sul vilipendio alla bandiera, poi, sempre negli Stati Uniti, esiste una serie di pronunce che hanno dichiarato la legittimità – e quindi la non perseguibilità – di condotte quali disegnare un segno di pace sulla bandiera, o cucire quest’ultima sul proprio fondoschiena in segno di protesta contro la guerra in Vietnam, o ancora appenderla al contrario ai vetri del proprio negozio, oppure calpestarla per comunicare il proprio dissenso rispetto all’invasione dell’Iraq fino a dichiarare costituzionalmente legittimo bruciare la bandiera statunitense (1). Neppure nel recente intervento di depenalizzazione voluto da questo governo, che ha interessato, tra l’altro, il reato d’ingiuria, si è avuto il coraggio di arrivare fino in fondo, limitandosi a rimettere le parti davanti al giudice civile che potrà applicare una non meglio definita “sanzione civile”, di fatto ipocritamente trasferendo la competenza da un giudice già oberato di lavoro ad uno oramai praticamente paralizzato. Non si sottrae a questi tentennamenti ed esitazioni, che sembrano oramai contraddistinguere l’azione dei nostri poteri, incapaci di fare delle scelte davvero innovative e riformiste, neppure la sentenza sul caso Erri De Luca, che, com’è noto, era stato rinviato a giudizio per istigazione a delinquere per alcune frasi espresse nel corso di un intervista riportata poi sui media nazionali. Come è stato giustamente osservato, la sentenza non entra nel merito della intrinseca scriminabilità di dette frasi sulla base di un bilanciamento tra diritto di critica e ad altri interessi in gioco, ma si limita ad inserirsi “nel solco del consolidato orientamento giurisprudenziale relativo ai rapporti tra le condotte incriminate dall’art. 414 c.p. e l’esercizio della libertà di espressione: si tratta dell’orientamento in base al quale la pubblica istigazione e la pubblica apologia di reati ricadono nell’esercizio della libertà di espressione solo quando non creano pericolo pe r l’ordine pubblico, ossia non risultano concretamente e attualmente idonee, alla luce del contesto storico e sociale di riferimento, ad esortare i loro destinatari alla violazione della legge penale” (2). In sostanza, il giudice, nell’assolvere lo scrittore non si è posto il problema della necessità di dover far comunque prevalere, in presenza di determinati presupposti (1), la libertà di parola anche a costo di sacrificare altri interessi, quali l’ordine pubblico, pur meritevoli di tutela, ma dal contenuto spesso indefinito, ma ha semplicemente concluso che le dichiarazioni di De Luca non fossero in concreto idonee ad istigare il movimento NoTav a commettere nuovi atti di sabotaggio.
Che dire, sarebbe finalmente arrivato il momento di riaprire una seria riflessione sulla libertà di parola nel nostro Paese e di ricacciare definitivamente certi fantasmi nelle pagine buie della Storia, anche a costo di qualche piccola forzatura, perché, come scrisse nel 1961, in un’opinione dissenziente, Hugo Black, giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti “dobbiamo proteggere le idee che detestiamo, altrimenti presto o tardi ci proibiranno di esprimere quelle che amiamo”.
(1) Pelissero M., La parola pericolosa. Il confine incerto del controllo penale del dissenso, in Questione Giustizia, cit., p. 38.
(2) Si rimanda, per un excursus completo sul tema, a I mobili confini della libertà di espressione negli Stati Uniti e il metro della paura di Elisabetta Grande, contenuto nel n. 4/2015 di Questione Giustizia, consultabile anche on line (http://www.questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2015-4.pdf).
Adriano Saldarelli, legale Aduc