Nicola Pietrangeli non è solo il più grande tennista italiano di sempre e il detentore del record assoluto (imbattibile) di 164 incontri disputati in Coppa Davis. Ma è anche uno degli sportivi più noti e un uomo di classe, amico personale del principe Ranieri di Monaco prima e del figlio Alberto oggi. Interminabile l’elenco delle donne che sono cadute ai suoi piedi o che avrebbero voluto farlo. Lui, da gentiluomo vecchio stampo, preferisce schermirsi e minimizzare. Il prossimo 18 dicembre saranno passati esattamente 40 anni dalla conquista dell’unica Coppa Davis del tennis italiano. Pietrangeli ha accettato di raccontare quella magnifica avventura e i molti retroscena inediti che l’hanno accompagnata, togliendosi più di qualche sassolino dalle scarpe.
Il 1976 fu l’anno d’oro del tennis italiano: Panatta vinse Roma e Parigi e a Santiago del Cile conquistammo, con Nicola Pietrangeli capitano non giocatore, la Coppa Davis. Farete una bella festa?
“Non si può fare una festa perchè i 5 dell’Ave Maria non è che vadano tanto d’accordo”.
Come sarebbe a dire?
“Sarebbe a dire che sono successe mille cose che sarebbe troppo lungo spiegare. C’è chi non parla con quello, chi non parla con l’altro, ognuno ha la sua versione. Meglio evitare”.
Però è un peccato.
“Certo che è un peccato. Ma debbo dire una cosa a distanza di tanti anni: probabilmente l’Italia, inteso come nazione, non se la meritava la Coppa Davis. Per il modo in cui è stata vissuta tutta la vicenda, prima, durante e dopo”.
Diciamo che è stato più facile battere il Cile che andare in Cile. Ci furono forti resistenze a quella trasferta perchè molti la vedevano come una sorta di riconoscimento al regime dittatoriale del generale Pinochet, che aveva conquistato il potere tre anni prima con un colpo di stato cruento.
“Il Partito Comunista di Berlinguer era ufficialmente contrario alla trasferta. Il giorno prima della partenza partecipai a una trasmissione a Rai Uno con Carlo Della Vida, Orlando Sirola, il senatore Compagna e il senatore Pirastu, responsabile dello sport del PCI. Lui era amico del presidente del Cagliari Andrea Arrica, praticamente un fratello per me, il quale gli disse: “Guarda che Nicola non è anticomunista, vuole andare in Cile per giocare a tennis”. Quella sera dopo la trasmissione siamo andati a cena assieme e con Pirastu, che era un vero appassionato di sport, siamo diventati amici per la pelle. Fu lui a parlare con Berlinguer, che diede il via libera al viaggio in Cile.
Qualche giorno prima ero stato a cena a Londra con Gaetano Caltagirone, che parlò al telefono con Franco Evangelisti, braccio destro di Andreotti, Presidente del Consiglio di allora. Quando Caltagirone disse: “Franco, sono qui con Pietrangeli”, lui rispose: “Il presidente (Andreotti) dice che non li manda in Cile”. E io ribattei a Caltagirone: “Dì a Evangelisti che per non farmi andare in Cile, il presidente mi deve ritirare il passaporto”.
Qualche giorno dopo un giornalista chiese a Forlani, Ministro degli Esteri, se fosse intenzionato a ritirarmi il passaporto e lui rispose: “Ma per quale motivo dovrei ritirare il passaporto a un libero cittadino che vuole andare in Cile per giocare un incontro di tennis ?”
Il presidente del CONI Giulio Onesti disse che doveva decidere la Federtennis. Ormai era tutto organizzato e partimmo. Anche se il futuro presidente della FIT Paolo Galgani non voleva andare. Galgani si è sempre vantato: “Sono partiti solo perchè io non ero ancora stato eletto”. E in effetti lui fu eletto l’11 dicembre, quando noi eravamo già a Santiago”.
Lei si espose molto e non ebbe vita facile.
“Sì, ero convinto che dovessimo andare il Cile, lo dissi chiaramente e ripetutamente. Non volevo che la politica entrasse in un fatto sportivo, avevamo l’occasione storica di conquistare la nostra prima Coppa Davis. Per tutta risposta ricevetti minacce pesanti: “Brutto fascista, ammazziamo te e la tua famiglia”. Non fu divertente, glielo assicuro. All’epoca conoscevo un colonnello dei Carabinieri e quando gli spiegai la cosa, mi assegnò una scorta che stazionava sotto casa 24 ore su 24. Poi siamo partiti, sempre scortati dai carabinieri, imbarcandoci dallo scalo nazionale per evitare i contestatori che ci aspettavano alle partenze internazionali”.
Perchè lei voleva andare a tutti i costi? Forse per conquistare da capitano quella Coppa Davis che da giocatore aveva soltanto sfiorato?
“Anche, ma non solo. Ero curioso di verificare di persona come stessero le cose in Cile, a di là di quello che ci raccontavano. Per tutto il mese di novembre del 1976 ci fu ogni giorno una discussione sull’opportunità o meno di andare laggiù. Io venivo tirato in ballo in continuazione da giornali, radio e televisione.
Un giorno mi invitarono a Rai 3 per una chiacchierata con gli Inti Illimani, che non sapevo neppure chi fossero. Quando arrivai in Rai mi dissero che erano un complesso musicale cileno e lì per lì mi sono un po’ arrabbiato: avrei preferito essere avvertito prima, perchè magari a questi gli avevano ammazzato i parenti e la mia presenza avrebbe potuto risultare imbarazzante.
Invece erano molto simpatici, siamo stati un’ora a chiacchierare. A un certo punto uno di loro mi fa: “Sappiamo che tu sei molto appassionato di calcio. Sai, la gente non va più allo stadio perchè è stato trasformato in un lager pieno di prigionieri e ogni tanto ne ammazzano uno”. La cosa naturalmente mi colpì, rimasi di sasso e non sapevo cosa dire.
Così, al nostro arrivo a Santiago, siamo andati subito a vedere l’impianto dove si sarebbe disputata la finale di Davis. A un certo punto, era pomeriggio inoltrato, comincia ad arrivare parecchia gente. Allora chiedo: “Dove vanno ?” Mi rispondono: “Vanno allo stadio per lo spareggio della coppa Libertadores”. Quindi l’impianto era agibile.
Lungi da me esprimere giudizi sulla situazione politica del Cile di allora, tre anni dopo il colpo di stato. Del resto io non conosco colpi di stato incruenti. Che Pinochet abbia fatto cose molto brutte è fuori discussione. Ma neppure Allende era uno stinco di santo. Io ho parlato con le gente di Santiago e molti dicevano che si era fatto gli affari suoi. Il colpo di stato venne innescato dallo sciopero indetto dal sindacato degli autotrasportatori a Valparaiso, che certo non era un’organizzazione di destra”.
A questo punto consentitemi una digressione per un ricordo personale. Ero arrivato da qualche ora all’Hotel Sheraton San Cristobal, quando mi si presenta un signore che dice di essere un giornalista della Tv cilena. Mi chiede se io e qualche altro collega italiano siamo interessati a una visita di Santiago. Naturalmente dico di sì e con altri 3 o 4 colleghi ci imbarchiamo in un mini van che ci porta in giro per la capitale. Il giornalista cileno ci dice: “Vedete, qui nessuno spara per le strade, non ci sono soldati in giro”. E in effetti non ne vediamo, almeno in divisa.
Ci porta nella piazza sulla quale si affaccia il palazzo presidenziale della Moneda. Un cartello spiega che il palazzo è sottoposto a restauro. In realtà, dopo il bombardamento dell’aviazione cilena in occasione del colpo di stato, erano rimaste in piedi solo le mura perimetrali, mentre i palazzi che si affacciano sulla piazza sono crivellati da fori di artiglieria pesante.
Mentre passeggiamo, veniamo fermati in continuazione da persone che ci dicono tutte la stessa cosa: “Benvenuti in Cile, siamo amici dell’Italia. Noi siamo felici”. Avendo girato un po’ il mondo, la cosa mi è rimasta impressa, perchè non mi è mai successo, né prima né dopo quel giorno, che le gente mi fermasse per strada per spiegarmi con entusiasmo di essere felice.
Quindi il nostro amico televisivo ci chiede se vogliamo vedere dove si sarebbe disputata la finale di Coppa Davis e ci dirigiamo verso l’impianto, molto simile al Foro Italico di Roma: da una parte l’Estadio Nacional, che ospitò la finale dei Campionati del Mondo del 1962, e a 300 metri di distanza il campo centrale del tennis, che visitiamo rapidamente.
Poi la nostra guida ci chiede se siamo interessati a entrare dentro lo stadio. In quel momento mi passano davanti le immagini del lager pieno di prigionieri politici, pubblicate da tutti i giornali fino a una settimana prima. Apprendemmo successivamente che lo stadio era stato “bonificato” prima del nostro arrivo.
Nel momento in cui ci spalancano i cancelli ed entriamo sul terreno di gioco mi vengono i brividi. La nostra guida ci dice che possiamo fotografare tutto, ma non ci fa vedere gli spogliatoi e i sotterranei. Il giorno dopo troviamo sul “Mercurio”, il quotidiano governativo, il racconto della nostra “gita”, con tanto di fotografie e con i nostri commenti positivi. Ma torniamo a Nicola Pietrangeli.
A Santiago foste accolti benissimo. Tra l’altro proprio in quei giorni avvenne lo scambio tra il segretario del Partito Comunista Cileno Corvalan e il dissidente sovietico Bukowski.
“Ci avevano sistemato allo Sheraton San Cristobal, su una collina che dominava Santiago. Un posto bellissimo, dove si stabilirono, oltre alla squadra e alle mogli dei giocatori, anche i giornalisti e i tifosi al seguito.
A nostra disposizione 24 ore su 24 c’era il capitano La Fontaine, nientemeno che il capo della sicurezza di Pinochet. In quei giorni non abbiamo mai visto un semaforo rosso, avevamo la scorta che non ci perdeva d’occhio un minuto.
Abbiamo trovato gente gentilissima e disponibile, è stata un’avventura fantastica.
Ma è normale che fosse così, loro non volevano il minimo incidente, tutto doveva filare liscio”.
La vigilia fu agitata dal malore che colse il direttore tecnico Mario Belardinelli, che finì in ospedale. Si parlò allora di una lite tra voi due, che notoriamente non eravate amiconi.
“La cosa andò così. Eravamo a cena con la squadra, c’era una certa tensione e l’atmosfera non era proprio rilassata. Belardinelli metteva ancora più agitazione, tristezza. A un certo punto ho detto: “Mario, ora basta con quest’aria cupa, dobbiamo rilassarci e ridere un po’. Non siamo mica qui per fare la guerra e poi vinciamo sicuramente, stiamo sereni”. Ho cercato insomma di sdrammatizzare.
Lui lo prese come un attacco personale e si sentì male. Ci fu un po’ di agitazione e fu chiamata un’ambulanza che lo accompagnò in ospedale, dove trascorse la notte. Mario era una persona molto emotiva e probabilmente ebbe uno sbalzo di pressione. Credo di ricordare che quella sera avesse mangiato qualcosa che gli fece male e forse le due cose insieme portarono a quella crisi.
Ma all’epoca si disse che avevo rischiato di far morire Belardinelli. Per fortuna invece non fu nulla di grave e all’inizio della finale lui era regolarmente a bordo campo”.
Anche con Galgani i rapporti non furono idilliaci.
“In quei giorni Galgani ebbe dei comportamenti inaccettabili. Cominciando dalla storia del ricevimento ufficiale, al quale partecipano per tradizione le due squadre, i dirigenti delle federazioni nazionali e di quella internazionale. Un giorno, mentre ero in camera, mi chiamano dalla reception dicendo che il presidente della Federazione cilena, uno dei primi avvocati di Santiago, voleva salire per parlarmi. Dopo qualche giorno eravamo diventati amici. Lui arriva, si siede sul letto e comincia a piangere. Pensavo fosse successa una disgrazia. Invece lui mi fa: “Nicola, il tuo presidente ha detto che la squadra italiana non parteciperà al ricevimento ufficiale”. E aggiunge: “Il generale Leigh (uno dei membri della giunta militare di Pinochet e capo dell’aviazione cilena, n.d.r) offre la cena alle delegazioni perchè è un grande appassionato di tennis. Se voi non venite, io sono un uomo finito”.
A quel punto andiamo da Galgani per avere chiarimenti e lui: “La squadra italiana non va al ricevimento offerto da questi fascisti che hanno ammazzato un sacco di gente”. Gli rispondo: “Io quella sera mi toglierò il distintivo dell’Italia dalla giacca e andrò alla cena. I giocatori facciano quello che vogliono. Ma ora tu prendi un foglio di carta intesta della Federtennis e scrivi: io proibisco alla squadra italiana di partecipare al ricevimento ufficiale”. E lui: “Io non scrivo proprio niente”. “Troppo comodo” ribatto e insomma il colloquio non fu tranquillissimo.
Allora gli dico: “Ora io e il presidente della federazione cilena andiamo dal presidente delle federazione internazionale, l’inglese Dereck Hardwick, e gli spieghiamo la situazione”.
Al mio racconto Hardwick ha una reazione stizzita e replica: “Ma che è matto ?”
A quel punto ci trasferiamo tutti da Galgani (eravamo nello stesso albergo) e Hardwick gli chiede una spiegazione. Io faccio da interprete, perchè Galgani non parlava una parola di inglese, e lui ricomincia con la tiritera dei fascisti. Hardwick taglia corto e mi dice: “Spiega al tuo presidente che se la vostra delegazione non si presenta al ricevimento ufficiale, l’Italia sarà squalificata per tre anni dalla Coppa Davis, perchè è un affronto inaccettabile verso il paese ospitante e verso la federazione internazionale”.
A quel punto Galgani, messo con le spalle al muro, si arrende e andiamo tutti alla cena ufficiale. Dove, con nostra grande sorpresa, il generale Leigh non si vede, perchè aveva un altro impegno. Ma Galgani trovò il modo di vantarsi pure di quello: “Sono stato io che l’ho fatto stare a casa”.
Nei giorni della finale Galgani non si è mai seduto nella tribuna presidenziale, ma si è sempre sistemato sugli spalti in tenuta informale.
Il terzo giorno, quando avevamo già vinto la Davis, Galgani si presenta in giacca e cravatta, tirato a lucido, pronto per la premiazione. Quando alla fine degli incontri si prepara la cerimonia ufficiale, lo speaker dice che Hardwick consegnerà la Coppa Davis alla squadra vincitrice e Galgani scende in campo. Hardwqick prende la Coppa, Galgani gli va incontro trionfante, ma il presidente dell’ITF lo ignora e mi consegna la Coppa Davis. Del resto il cerimoniale prevede questo. Ai mondiali di calcio la Coppa viene consegnata al capitano della squadra vincitrice, non al presidente della Federcalcio”.
Sul campo non ci fu storia.
“Ma sì, eravamo nettamente superiori. Nel primo incontro Barazzutti iniziò un po’ teso contro Fillol, il numero uno cileno che aveva raggiunto i quarti a Parigi. Ma poi, una volta liberatosi dall’ansia, non ci fu più partita. Così come fu facile il secondo singolare tra Panatta e Cornejo.
A distanza di anni non posso che ripetere che io ho avuto un solo merito: quello di averli portati lì. Poi in campo sono andati i giocatori. Mi fanno ridere quelli che hanno scritto: Belardinelli ha deciso. Ma cosa ha deciso ? La squadra era quella: Panatta e Barazzutti in singolare, Panatta e Bertolucci in doppio. Non c’era proprio niente da decidere.
Qualcuno sostiene che se la Russia non si fosse ritirata in semifinale col Cile, la finale sarebbe stata più difficile. I russi avevano un solo buon giocatore, Metreveli, ma col Panatta del ’76 non ci sarebbe stato niente da fare neppure per lui. La vera finale fu la semifinale con l’Australia al Foro Italico, quando Panatta batté Newcombe sul 2 pari.
Era stato complicato anche il turno precedente sull’erba di Wimbledon. Lì Barazzutti ebbe un po’ di paura e allora decidemmo di gettare nella mischia Zugarelli, che battè Taylor nel primo singolare, consentendo ad Adriano di giocare tranquillo e di superare John Lloyd. Solo che da allora Zugarelli si sentì titolare e in seguito creò solo guai”.
E cosa combinò?
“L’anno dopo, contro la Spagna a Barcellona, ci portammo sul 3 a 1 e a risultato acquisito, grazie alla vittoria di Barazzutti su Orantes, il capitano iberico mi comunicò che Higueras non sarebbe sceso in campo per l’ultimo singolare. A quel punto Panatta disse: “Non gioco neppure io”. Andai da Zugarelli e gli dissi: “Tonino, giochi tu”. E lui: “Non ho la roba”. Pazzesco. Lo dissi al presidente Galgani, che minimizzò l’accaduto.
Poi in finale contro l’Australia, sull’erba di Sydney, Zugarelli era convinto di giocare. Peccato che in allenamento non vincesse mai un set né con Panatta né con Barazzutti. Durante uno di questi match di preparazione, di fronte a 25 giornalisti, Zugarelli sbagliò un colpo, tirò la palla in tribuna e imprecò pesantemente. Lo invitai a calmarsi e per tutta risposta mi mandò platealmente a quel paese davanti a tutti. Fosse dipeso da me, lo avrei rispedito a casa col primo aereo. Ma naturalmente prevalse la ragion di stato”.
Torniamo alla finale di Santiago: lei la sapeva la storia che il giorno del doppio Panatta e Bertolucci indossarono le magliette rosse in segno di protesta verso il regime di Pinochet?
“Secondo me è una bufala inventata a posteriori. A me comunque nessuno disse nulla”.
Il pubblico di Santiago fu straordinario: prima fece un tifo d’inferno per il Cile e poi?
“Sì, fu commovente. Dopo che ci avevano consegnato la Coppa Davis, ci chiese di fare la “vuelta”, il giro d’onore dentro il catino dello stadio. Una cosa che facevano solo con i loro atleti. Ci applaudirono come se avessero vinto loro. Fu un’emozione indimenticabile”.
E alla sera in albergo avete festeggiato?
“Veramente non ricordo grandi festeggiamenti. Con Belardinelli mezzo morto per causa mia e Galgani col quale non ci parlavamo, l’atmosfera non era proprio idilliaca.
Zugarelli partì il giorno dopo per Roma, mentre col resto della squadra ci prendemmo tre giorni di relax a Rio dei Janeiro”.
E al ritorno il trionfo a Fiumicino?
“Ma quale trionfo? Ricordo che ci preparammo con la Coppa Davis, ci affacciammo dalla scaletta dell’aereo pensando di trovare chissà che…e invece non c’era praticamente nessuno. Una decina di persone, tutto personale dell’aeroporto, e forse un paio di fotografi. Rimanemmo delusi, anzi dispiaciuti”.
Insomma, siete partiti in incognito e siete tornati in incognito. E a livello istituzionale qualcuno si ricordò di voi?
“Il presidente del Coni Giulio Onesti, che non scriveva mai agli atleti, mi mandò una lettera bellissima in cui mi faceva i complimenti e diceva che ero stato vittima di una congiura di basso impero. E chiudeva dicendo: si ricordi che la riconoscenza non è di questo mondo”.
E infatti, proprio i suoi giocatori le tirano un brutto scherzo dopo la finale persa con l’Australia nel 1977. Mentre sta per cominciare la stagione successiva cosa succede?
“Mi convocano all’Hotel Jolly di Firenze per una misteriosa riunione, della quale non capivo l’utilità. Io durante la finale di Sydney stavo attraversando un brutto momento per problemi familiari e mi ero illuso che i giocatori, che conoscevano la situazione, mi sarebbe stati vicini, li consideravo amici”.
Invece?
“Un mese prima, durante i campionati assoluti indoor, Belardinelli, che non parlava mai coi giornalisti, aveva convocato una conferenza stampa per dire peste e corna di me. Cos’era successo ? Che Galgani gli aveva detto: “Mario, tu ce l’ha la pensione ?” E lui: “No”. “Ecco, allora aiutami a far fuori Pietrangeli e avrai la pensione”. Una porcheria”.
E a Firenze che succede?
“Entro nella sala e trovo schierati, come un plotone d’esecuzione: Galgani, Belardinelli, Panatta, Bertolucci, Barazzutti e Zugarelli. Dopo un interminabile momento di silenzio imbarazzato, prende la parola Paolo Bertolucci che dice: “Nicola, noi non proviamo per te quello che provavamo lo scorso anno”. Li mando a quel paese, giro i tacchi ed esco dalla stanza. Il ruolo di capitano non giocatore della squadra di Coppa Davis non era più mio”.
L’Italia è ancora tra le favorite, ma nel 1978 al primo turno contro l’Ungheria succede il patatrac.
“Io ero in Sardegna in barca con Vincenzo Malagò e Franco Pesci, il marito di Virna Lisi, e non riuscivamo a vedere la televisione che trasmetteva l’incontro. Quando rientriamo a Porto Rotondo troviamo una decina di amici con lo champagne che festeggiano la sconfitta dell’Italia sull’Isola Margherita, con Panatta battuto da un certo Szoke, un dilettante che di professione si occupava del catering dell’aeroporto di Budapest.
Alla fine mi dispiacque perchè davvero speravo di avere degli amici e invece mi trovai accoltellato alle spalle, soprattutto da Adriano. Quando diventai capitano di Davis la squadra era divisa in due clan: da una parte Panatta e Bertolucci, dall’altra Barazzutti e Zugarelli. Tra loro nemmeno si parlavano. Io li misi insieme, convincendoli che dovevano diventare una squadra e combattere uniti. E i risultati mi hanno dato ragione. E’ stata una bella storia che avrebbe potuto finire meglio”.
Si diverte ancora a guardare il tennis?
“No, lo trovo molto noioso. A meno che non giochi Federer”.
Impossibile fare confronti tra giocatori di epoche diverse. Ma proviamo a dire chi è stato il più grande dei suoi tempi e il più grande di oggi.
“Il più grande dei miei tempi è stato Rod Laver, anche se sulla partita singola Lewis Hoad avrebbe potuto battere chiunque. Dei tempi moderni il migliore è senza dubbio Federer, perchè nessuno ha vinto quanto lui e perchè vederlo giocare è una gioia per gli occhi”.
Il suo più grande rimpianto?
“La semifinale di Wimbledon del 1960 contro Laver, persa dopo essere stato in vantaggio 2 set a 1. Ricordo che negli spogliatoi si precipitò Neale Fraser, che mi ringraziò della sconfitta perchè era sicuro di battere Laver, come infatti accadde. Mentre invece temeva di più me”.
Più forte Pietrangeli o Panatta?
“Di gran lunga Pietrangeli. Ho giocato sette finali di Grande Slam tra singolare e doppio. Ho vinto due volte il Roland Garros e giocato altre due finali, ho vinto due volte gli Internazionali d’Italia e disputato altre due finali, ho perso in semifinale a Wimbledon. Panatta ha giocato e vinto una sola finale del Grande Slam, quella di Parigi nel 1976”.
di Daniele Garbo, Alganews