Si è capito che solo con la pubblicità le news online non si ripagano. È un modello di business che non funzionava né nel 2000, quando partì IlNuovo.it, né nel 2010, quando ha preso il via Lettera43. Nel frattempo, però, Internet ha ridotto parecchio il pubblico di lettori disposti a pagare per avere una informazione di qualità. Diciamo che una fetta del mercato, adesso, si accontenta di fruire di una informazione di scarsa qualità, ma gratuita. Tuttavia l’emorragia sembra essersi fermata, con uno zoccolo duro che ha voglia di mettere mano al portafoglio per leggere qualcosa di decente. Perciò l’informazione a pagamento, su carta o altri supporti, dovrebbe avere ancora tanti anni di vita. Certo, quella sul quotidiano tradizionale, che si compra in edicola, potrebbe avere un respiro generazionale, diciamo di una ventina di anni. I millennials, infatti, non vanno in edicola, non comprano né leggono giornali di carta, più per fatto culturale che per altri motivi.
Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica, negli anni Settanta diceva a Indro Montanelli: «Ogni volta che un lettore muore, è un lettore in meno per il tuo Giornale». Ecco, ora quella frase si potrebbe ribaltare su tutti i quotidiani cartacei. Ma un po’ di fiato, comunque, resta per la carta, e ci sono tantissimi editori di quotidiani cartacei che nel 2016 fanno milioni di euro di utili. E anche tra i millennials, insomma, si va affermando il concetto che l’informazione di qualità deve essere pagata. Pure quella gratis, certo, a volte può essere di qualità: pensiamo ai video sugli attentati a Bruxelles fatti ieri coi telefonini dai passeggeri all’aeroporto; o agli scoop sulle primarie del Pd a Napoli realizzati dai ragazzi di Fanpage. Ma in genere quel tipo di informazione è di basso profilo.
Come spiega un giornalista che è stato per anni direttore delle news di uno dei più importanti portali italiani, «posso dire che fare informazione online porta pochi soldi. A ciò, in tempi relativamente recenti, si è aggiunta anche la concorrenza dei social media Gli effetti sono noti: se è possibile, è ancora più arduo fare ricavi. E assistiamo a una spinta sempre più forte verso il basso circa la qualità del contenuto. Perché al fallimento economico si è aggiunto pure un fallimento della professione di chi scrive. Si possono usare tante parole, in tutte le lingue del mondo, per raccontare che la pagina vista non conta più nulla. Si possono leggere migliaia di comunicati stampa sui nuovi algoritmi di Facebook o di Google che privilegiano la qualità. Palle, solo palle. Oggi tutti lavorano con una bella dashboard, per verificare quali sono i trend e come sta andando il pezzo pubblicato online. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Il business è fatto di rincorsa alla pancia, ed è ovviamente legato a doppio filo all’advertising tabellare. I fatturati delle testate sono molto chiari: i ricavi li fanno con la carta. Potrei proseguire per ore, a cominciare della pietra filosofale del native advertising o del programmatic. L’importante, per favore, è che non mi parliate di BuzzFeed».
In Italia la storia del giornalismo nativo digitale è iniziata nel 1996, con Affaritaliani di Angelo Maria Perrino, ma ha avuto il suo vero debutto in grande nell’ottobre del 2000 col lancio de IlNuovo.it da parte di e.Biscom. Una quarantina di giornalisti, per un investimento iniziale di una decina di miliardi di lire che avrebbe coperto il primo anno di vita tra tecnologia, redazione e una campagna pubblicitaria di tre settimane. Già nel 2002 si capisce che Il Nuovo è un buco economico. Però, dice con un certo orgoglio Sergio Luciano, all’epoca direttore responsabile del giornale online, «fu un successo editoriale. Col Nuovo avevamo 300 mila visitatori unici al giorno, 1,2-1,3 milioni di pagine viste. Purtroppo, zero pubblicità, contro le previsioni che ci avevano fatto le concessionarie (era raccolto da Pk, ndr). Ma, ribadisco, facevamo un traffico doppio del Corriere.it o del TgCom, ed eravamo a una incollatura da Repubblica.it, con 18-20 ore di aggiornamenti e 150 articoli al giorno. Tanto per dire, siamo stati i primi a dare la notizia della morte di Carlo Giuliani al G8 di Genova».
A inizio 2004 Il Nuovo chiude. Ma perché nessun editore provò mai a replicare un esperimento di quel genere, un grande quotidiano online nativo digitale? «Beh, proprio nel 2004», risponde Luciano, «decollano gli allegati cartacei e multimediali ai grandi quotidiani. Gli editori fanno un sacco di soldi, non ci sono stimoli per business nuovi, cercare altre strade, pensare a iniziative sul web. Inoltre si era sgonfiata la bolla Internet. E poi, a quel punto, tutti i grandi quotidiani avevano già il loro sito (nel 2000 no, ndr). Passa del tempo. Nel 2010 nasce Lettera43, nella convinzione che i tempi, finalmente, fossero maturi per un nuovo grande quotidiano generalista online. Ma i tempi, bisogna ammetterlo, non erano maturi neanche allora. La lezione che va tratta da queste esperienze è che un giornalismo di qualità online non sta in piedi, salvo rarissime eccezioni, solo con la pubblicità. Il problema di Internet è che ha ridotto il bacino complessivo di lettori disposti a pagare per avere una informazione di qualità, è una disruption che distrugge senza costruire. Ora in molti si accontentano di una informazione di bassa qualità, ma gratis. Comunque, l’informazione di qualità va pagata, a prescindere dal supporto carta o non carta. Ma la base si è ristretta. Poi, ovvio, la base la devi trovare. Linkiesta, ad esempio, ci ha provato a fare informazione di qualità online a pagamento. Ma non se l’è filata nessuno».
di Claudio Plazzotta, Italia Oggi