(di Riccardo Ruggeri) Mio papà, operaio Fiat e raffinata mente politica, divideva gli italiani adulti che vissero gli anni ’20 e ’30 in tre categorie: gli “antifascisti”, i “fascisti”, i “contemplativi”. I “fascisti” rappresentavano almeno il 90% della popolazione, con una cinquantina di sfumature di orbace, i “contemplativi” il 10%, gli “antifascisti” l’1%. Il suo criterio per entrare nella categoria nobile degli “antifascisti” era molto rigido. Lo erano gli ebrei e gli zingari di diritto, cheap perseguitati dalle leggi razziali, lo erano quelli “schedati”: ogni volta che Mussolini veniva a Torino, mio nonno, come capo famiglia, andava in gattabuia per i giorni della sua permanenza, infine lo erano quei 12 su 1200 professori universitari che avevano rifiutato di firmare l’adesione al Regime.
Il suo criterio prevedeva altri paletti: non contavano quelli dichiaratisi antifascisti dopo l’entrata in guerra, quelli che erano fuggiti all’estero ma che erano poi tornati per raccogliere, “dividendi” non dovuti. Il suo disprezzo era però massimo verso quelli che divennero antifascisti, quando gli americani sfondarono la “Linea Gotica”. Erano figli dell’aristocrazia piemontese del denaro, dell’industria, della terra, degli intellò, politicamente si dicevano “azionisti”. Quando costoro videro in lontananza gli americani, si affrettarono a indossare i pantaloni di velluto, una giacca di fustagno, un foulard di seta rossa al collo, e via, sulle Langhe, per scendere a valle pochi mesi dopo, abbronzati e depurati grazie alla cucina povera langarola, affiancandosi agli alleati come resistenti e liberatori. Per tutta la vita, il foulard di seta rossa non abbandonerà mai più il loro collo, pontificheranno di giustizia e libertà, ma nel profondo rimarranno “fascistoidi”.
I più colti di costoro, cercarono disperatamente di nascondere le cose orrende che avevano scritto a favore del Fascismo, e passarono la vita, facendo pure carriera, costruendosi un personale storytelling, con frasi alte, del tipo “Quando tutto era perso, la Resistenza ci ha dato la nostra religione civile”, e simili ovvietà. In tutti questi 70 anni (sono tra i non molti che possono dire di aver festeggiato 70 volte il 25 aprile, seppur sempre più stancamente), scrissi della Liberazione solo una volta, nel mio libro “Una Storia Operaia”. Raccontai un episodio (minimo ma grave) che la Classe Dominante ha sempre tenuto rigorosamente coperto, e guai tuttora a parlarne. Lo riporto “…negli stessi anni, sempre nel centro storico di Torino, poco lontano dalla nostra portineria, in un alloggio signorile, un giovane borghese dello stesso millesimo di mamma, che nel dopoguerra diventerà un mito dell’antifascismo, si rivolgeva con tono ossequioso a Mussolini per ottenere un avanzamento nella sua carriera universitaria. Solo quando, molti anni dopo, fu scoperto il fatto, ebbe il buon gusto di rinunciare al titolo di maître à penser, anche perché l’aveva già eticamente perso”. Riconosco però che costui era di gran lunga il migliore di questa genia, perciò l’ho sempre stimato per la profondità del suo pensiero e l’eleganza della sua scrittura.
La Resistenza l’abbiamo commemorata abbastanza. A furia di lasciarla commemorare, anche da chi non aveva niente in comune con essa, abbiamo finito per imbalsamarla. Prima che gli esaltati del “politicamente corretto” mi insultino per lesa maestà, ricordo che tale frase non è mia, ma di Norberto Bobbio, il Papa laico della Sinistra, e la trovate nel libro “Eravamo diventati uomini. Testimonianze e discorsi sulla Resistenza in Italia, 1955-1999”, Einaudi editore.
La sottoscrivo parola per parola, anche a nome di mio papà, sintetizza in modo perfetto come dobbiamo comportarci verso questo lontano evento che abbiamo chiamato “Liberazione”, ma che aveva molti dei connotati di una “Guerra Civile”. Passo e chiudo.
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