Paradossi: si temeva l’analfabetismo di ritorno, invece non abbiamo mai usato tante parole. Grazie ai phablet. Soprattutto al più recente

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Chi ha detto che le misure non contano? Prendiamo i cellulari, here che ogni giorno assorbono in media tre ore e 16 minuti del nostro tempo, online secondo un’indagine su duemila possessori di smartphone pubblicata dal “Daily Mail”. Quasi una protesi del nostro corpo, prescription la cui improvvisa mancanza ci farebbe sentire in qualche modo menomati. Quando hanno cominciato a circolare nel nostro paese, in occasione dei campionati del Mondo “Italia 90”, avevano dimensioni e peso di un mattone. Poi, negli anni della battaglia per il controllo del mercato tra Ericsson e Nokia (sembra un’era fa), si sono progressivamente ridotti fino ad assumere la forma di una conchiglia alloggiata nel palmo di una mano. Sembrava quella la strada. E invece… Invece, nel 2007, è arrivato l’iPhone, il più rivoluzionario prodotto creato da Steve Jobs, che ha cambiato tutti i parametri: la parola d’ordine è diventata “thin”. Oggetti sempre più sottili, ma, grazie al touchscreen, dotati di uno schermo importante. Così la sfida per il controllo del mercato, oggi combattuta principalmente da Samsung e Apple, si è spostata sui “phablet”: dispositivi con display tra i 5 e i 7 pollici che puntano a diventare l’oggetto unico, smartphone e tablet insieme.
Per non lasciare scoperto il fianco ai rivali, la Apple di Tim Cook, per la prima volta nella sua storia, ha deciso di lanciare contemporaneamente sul mercato due cellulari che sono in qualche modo “l’uno l’astuccio dell’altro”: l’iPhone 6 e l’iPhone 6 Plus, con display Retina HD rispettivamente di 4,7 e 5,5 pollici. I fan della mela morsicata di Cupertino si sono trovati per la prima volta nella condizione di dover scegliere tra due prodotti nuovi ma dalle dimensioni diverse: più conservativo e “tascabile” il primo, decisamente più ingombrante, ma anche performante, il secondo. Che fare? La scelta non può essere che soggettiva. È interessante, invece, interrogarsi sul perché il mondo degli smartphone sembra essere tornato a una forma di gigantismo.
Analfabetismo di ritorno? Quando, nella seconda metà degli anni Novanta, anche da noi cominciarono le prime sperimentazioni di giornalismo online, non pochi giornalisti sostennero che il mondo digitale ci avrebbe fatti ripiombare in una sorta di analfabetismo di ritorno: avremmo progressivamente perduto le capacità di scrittura e lettura, dicevano, a causa del mancato, costante esercizio di quanto avevamo imparato sui banchi di scuola. Non è andata esattamente così. Negli ultimi trent’anni, computer, telefonini e web hanno progressivamente rivoluzionato il nostro modo di lavorare e di vivere. La scrittura, nelle sue varie forme fino al secolo scorso legata principalmente ad alcune professioni, non è mai stata centrale e diffusa come oggi. Ecco perché il phablet, il “padellone” che vediamo sempre più spesso nelle mani delle persone, non può essere semplicemente catalogato come lo sfoggio di uno “status symbol”.
Anche la penna va in pensione Schermo grande vuole dire essenzialmente due cose: tastiera più ampia e più spazio per la scrittura e per i video. Eccole, le ragioni che hanno aperto una nuova sfida nel mondo dei cellulari: sono più comodi per scrivere e leggere. Quando usiamo Internet o stiamo sui social media digitiamo su una tastiera. Scriviamo, otteniamo risposte, leggiamo, guardiamo foto e video, archiviamo tutto ciò che ci sembra interessante o utile o che, comunque, non vogliamo dimenticare. Creiamo la nostra memoria: personale e, in alcuni casi, condivisa. Chi non ha conservato qualche, anche inutile, vestigia del passato? Un documento, i biglietti di un concerto o di una partita di calcio, il menu di un ristorante in cui siamo stati per un’occasione particolare, un biglietto o un ricordo. Tutte funzioni che oggi sono trasferite sui nostri telefonini, veri depositari delle tracce del nostro essere nel mondo: dalle foto dei concerti ai selfie che hanno mandato in soffitta gli autografi. “Io c’ero” e il documento che lo prova è qui con me, nel mio cellulare, disponibile per essere mostrato in ogni momento, o condiviso con i “miei amici” sui social network. Nessuno oggi si metterebbe a frugare in una borsa o in un portafoglio pensando di scoprire chissà cosa (a meno che non cerchi soldi). Ma quanti lascerebbero il proprio cellulare in mano ad altri con disinvoltura? Come spesso accade con le nuove tecnologie, anche i cellulari, nati per telefonare, sono diventati un’altra cosa: l’archivio dove immagazziniamo le tracce del nostro essere nel mondo.
Analfabetismo di ritorno e morte della scrittura, si diceva; e invece, eccoci qui tutti chini a battere furiosamente sui tasti di computer e telefonini, a leggere e scrivere tutto il giorno come se non ci fosse un domani. È l’esplosione della scrittura di massa, della lettura, della fruizione dei video il carburante che alimenta il ritorno al “gigantismo” di questa stagione dei cellulari. Fateci caso: quante meno occasioni abbiamo, rispetto anche al recente passato, di tirare fuori la penna. Sì, certo, resta la firma autografa, che non è la stessa cosa di una firma digitale. Ma in casa Apple usano già un’applicazione che consente di firmare i documenti con il dito della mano sul touchscreen. Tra non molto anche le stilografiche saranno oggetti da esposizione, come già accaduto alle belle, ma ormai obsolete, macchine per scrivere.
La scatola degli attrezzi Che cos’è la scrittura? Cosa, i linguaggi con i quali ci esprimiamo? Una grande scatola degli attrezzi dove teniamo gli “utensili”: punti, virgole, regole, programmi di fotografia e di montaggio video. Ecco: la Apple ha voluto creare una scatola degli attrezzi più grande, con una resa visiva migliore. L’iPhone 6 Plus è certamente più ingombrante rispetto al fratello più piccolo, ma è anche uno strumento che mette, ad esempio un giornalista, nella condizione di avere sempre con sé la scatola degli attrezzi indispensabile per scrivere un articolo, scattare e inviare una foto in alta risoluzione, produrre e montare un video in HD. Non è solo una questione professionale. Queste “scatole” digitali, grandi e piccole, faranno sempre più parte della nostra vita perché hanno sostituito la scatola dei ricordi. Dimenticata in qualche vecchia soffitta con il loro mondo di carta: vecchie lettere, foto, biglietti, ritagli di un passato che non tornerà.

DI MARCO PRATELLESI L’Espresso