L’incertezza che “gela” le famiglie

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soldiAll’indomani dei dati relativi sul calo del Pil nel primo trimestre ci si interrogava se si trattasse di una pausa dopo un primo timido segno di ripresa a fine 2013, online oppure di un segnale che in realtà la recessione non era finita. Tre mesi dopo i dubbi si sono diradati: la recessione è ancora in atto e probabilmente anche nel 2014 il Pil sarà in caduta sia pure limitata. Nulla di comparabile con il -1, troche 9% sperimentato nel 2013 e il -2, 4 del 2012, ma indubbiamente una delusione cocente, i cui aspetti negativi sono stati abbondantemente enfatizzati. Probabilmente si tratta dei colpi di coda della grave recessione iniziata nel 2011, la seconda dall’inizio della crisi. Durante la prima recessione, 2008-09, la caduta del Pil è stata molto profonda (6,7% del Pil dal 2007) ma il sistema economico ha mostrato un certo grado di resilienza tornando a crescere nel 2010 all’1,7%. La seconda, legata alla crisi dei debiti sovrani dei paesi periferici dell’Uem, si è manifestata con minore intensità (-4,8% del Pil tra metà 2011 e metà 2014) e distribuita su tre anni. Alla fine del 2013, abbiamo creduto di esserne fuori e invece non è così, ma non è tutta colpa nostra. L’annuncio a metà dell’anno scorso e l’avvio a fine 2013 della riduzione dell’allentamento della politica monetaria Usa hanno messo in moto il rallentamento dell’espansione dei paesi emergenti, con l’effetto di stagnazione esercitato sul commercio mondiale. A ciò, in Europa, si è aggiunto prima l’apprezzamento dell’euro e poi la crisi ucraina. Piove sul bagnato. Le aspettative d’inflazione europea sono andate riducendosi e a luglio la loro dispersione si è drasticamente ridotta. L’opinione del 50% dei partecipanti alla Survey of Professional Forecasters è che di qui ai prossimi cinque anni l’inflazione sarà tra l’1,9 e il 2 per cento, nonostante l’annuncio dell’ulteriore allargamento della politica monetaria fatto da Mario Draghi a giugno. L’altro 50% tra l’1,4 e l’1,8 per cento. Poco più di due anni fa, su un orizzonte quinquennale, una metà si attendeva un’inflazione tra il 2,1 e il 2,8, superiore all’obiettivo ufficiale della Bce, e l’altra metà tra l’1,8 e il 2. In questi ultimi mesi è emersa un’aspettativa, da parte di persone informate, di crescita molto lenta per l’Europa nel medio periodo. Tutto ciò si è manifestato per noi nei primi due trimestri nel contributo netto dell’estero (il saldo tra esportazioni e importazioni) negativo, il che ha contribuito a ridurre il Pil. Da un lato, la stagnazione delle esportazioni per le ragioni dette, dall’altro, nel secondo trimestre di quest’anno, la crescita delle importazioni di prodotti energetici, con molte probabilità dovuta all’accumulo di scorte precauzionali in vista di eventuali difficoltà nei prossimi mesi invernali. La stagnazione delle esportazioni a causa della domanda mondiale si riflette solitamente nel giro di qualche mese sugli investimenti industriali e ciò è quanto è puntualmente successo tra il primo e il secondo trimestre di quest’anno. Nel primo trimestre sembrava essere terminato il ciclo negativo degli investimenti in macchinari, ma al persistere di una mancata espansione delle esportazioni nel secondo trimestre gli investimenti sono tornati a cadere dell’1,5% rispetto al primo. Anche dal lato delle famiglie, molte sono le difficoltà che si trovano ad affrontare: la disoccupazione conclamata e il rischio ancora pendente di perdere il lavoro per chi finora l’ha conservato; la prospettiva, comunque, di stagnazione dei salari e dei redditi in generale; la necessità di ricostituire il livello precedente di ricchezza per chi è stato colpito dalla crisi finanziaria. Nonostante tutto ciò, è ormai un semestre che l’andamento dei consumi di contabilità nazionale è leggermente positivo. Dopo essersi ridotti per dieci trimestri dall’inizio del 2011, nel secondo semestre del 2013 i consumi totali sono rimasti fermi e nel primo semestre di quest’anno sono cresciuti dello 0,2 per cento rispetto al semestre precedente. A determinare questo piccolo risveglio sono prevalentemente gli acquisti di beni durevoli e di servizi. Ancora in riduzione, invece, le spese per i semidurevoli e i non durevoli, tra cui gli alimentari. Dal 2008 al 2013 gli acquisti di beni durevoli si sono ridotti circa del 30 per cento. Rispetto all’estate scorsa quest’anno sono tornati a crescere di poco più del 2%. Ben poca cosa che può essere interpretata come una necessità indilazionabile di sostituzione, cui si è affiancato qualche segnale positivo sul credito al consumo, e che potrebbe aver richiesto alle famiglie, di fronte al vincolo posto dal reddito guadagnato, l’ulteriore riduzione degli altri consumi ad esclusione dei servizi. Comunque sia, non sono le famiglie italiane ad avere ributtato la nostra economia nella recessione. In ogni caso, non possono costituire una garanzia per trascinare la nostra economia verso una crescita positiva duratura, sia pure molto lenta, come tutte le nostre condizioni strutturali ci impongono. Le famiglie, infatti, sono molto esposte all’incertezza del futuro e quindi facili a cadute di fiducia nell’andamento dell’intera economia anche se le condizioni individuali non peggiorano, il che stimola comportamenti di risparmio precauzionale. Il sostegno nel breve periodo non può che venire dall’estero: consolidamento della crescita americana, passaggio di testimone nella politica monetaria espansiva dalla Fed alla Bce e possibili effetti di deprezzamento dell’euro, accordi tra i paesi europei sul rilancio degli investimenti, tali da risollevare da subito il clima di fiducia.

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