L’amministratore delegato: “Il Mozambico conferma che la nostra strategia funziona”
«La cessione ad ExxonMobil del 25% della nostra Area 4 nell’offshore del Mozambico è la riprova che la nostra innovativa strategia sull’esplorazione funziona e rappresenta un importante riconoscimento anche per l’Italia». L’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, ha appena chiuso un affare da 2,8 miliardi di dollari e mostra tutta la sua soddisfazione per il frutto «di un lavoro matto e disperatissimo» che archivia «l’ultimo degli impegni presi nel 2014 per il triennio».
Dottor Descalzi, cosa significa per Eni questa operazione?
«Rappresenta il cuore della nostra strategia, che vede nell’esplorazione una doppia valenza. Da un lato ci consente di promuovere progetti nuovi da cui, per esempio, è giunto il rimpiazzo delle riserve registrato nel 2016. Dall’altro ci permette di fare una velocissima monetizzazione. Tra il Mozambico e altre 4 operazioni simili negli ultimi 4 anni abbiamo realizzato 9 miliardi di dollari, per intenderci quanto il capitale che per 15 anni abbiamo messo in Kashagan per potere cominciare a produrre solo qualche mese fa. Ma c’è una valenza più ampia».
Ce la spiega?
«In un momento in cui tutti stanno vendendo asset produttivi, noi abbiamo venduto asset esplorativi: sono stati riconosciuti unicamente per il loro potenziale. E li abbiamo venduti alle prime 4 società petrolifere al mondo: le prime due indipendenti – l’americana ExxonMobil e la britannica Bp – e le prime due nazionali, la cinese Cnpc e la russa Rosneft».
Il giro che conta.
«Se si inquadra la cosa dal punto di vista geopolitico, la valenza delle società in campo e l’interesse nazionale, per l’Italia è un grandissimo passo. Gli italiani che trovano nuove risorse, le valorizzano e creano valore aggiunto – la plusvalenza sui 9 miliardi è stata di circa 7 miliardi – trovano un riconoscimento per le loro tecnologie e conoscenze. È positivo per Eni, scelta come partner di lungo termine, ed è positivo per l’Italia: abbiamo unito Stati che scelgono con cura i Paesi con cui fare affari».
Recentemente avete acquisito il 50% del Blocco 11 di Cipro: come va inquadrato?
«L’acquisto, che segue altri a Cipro e al confine con l’Egitto, ci permette di piantare la bandierina dell’Eni in questa grossa area che ha caratteristiche molto simili a Zohr, su cui abbiamo competenze dettagliatissime. Sarà la base della futura esplorazione».
Cosa cambierà per Eni con la presidenza Trump?
«Direttamente poco: siamo presenti nell’area americana, ma non siamo leader. La promozione degli investimenti in America da parte di Trump potrà aprire spazi maggiori in giro per il mondo. E una distensione tra Usa e Russia potrà offrire delle opportunità. Senza più sanzioni, si aprirebbe il bacino russo che sulla parte oil&gas ha avuto dei rallentamenti».
Ieri il petrolio è sceso sotto i 50 dollari per la prima volta da dicembre. È un allarme?
«Non siamo preoccupati. Sull’andamento pesano due fattori: le scorte che non riescono a smaltirsi e i timori, contenuti in alcuni articoli di stampa, che i tagli Opec non stiano creando effetti».
Non è così?
«No. La domanda è costante e i tagli dell’Opec per l’80-90% sono stati fatti. La tendenza resta positiva».
È fiducioso sulle indagini che la riguardano sulla Nigeria?
«Sono fiducioso soprattutto sull’operato di Eni e del mio. Mai come questa volta abbiamo avuto analisi esterne assolutamente appuntite, tutte estremamente positive e che hanno indotto il cda, per ben due volte, a dirsi tranquillo sulla condotta di Eni e a confermarmi la fiducia».
L’affare in Mozambico, che corona tre anni di lavoro, può facilitare la sua riconferma?
«Questo non lo so. So solo che gli ultimi tre anni sono stati i più difficili e la nostra società ha segnato molti record: il taglio degli investimenti, la “cash neutrality” a 46 dollari, una maggiore crescita produttiva, business per anni in perdita tornati in positivo e il debito ulteriormente ridotto anche grazie all’operazione in Mozambico».
di Francesco Spini, La Stampa