Edward Gibbon, autore di Storia del declino e caduta dell’Impero Romano, è forse, con Tacito, l’autore romano degli Annali, lo storico più influente ad avere mai preso in mano una penna. Il suo monumentale contributo—mise più di vent’anni per scriverlo, in sei volumi—ha insegnato all’ Occidente molto di quello che adesso pensiamo di sapere del passato, ponendo le basi per ciò che le generazioni successive—inclusa quella attuale—credano sia lo scopo del governare.
Nacque nella primavera del 1737 e morì a Londra nel gennaio del 1794, di—per il diletto degli studenti anglosassoni nei secoli intercorsi—un caso molto avanzato di “gonfiore scrotale” dovuto, secondo le cronache, alla moda dell’epoca dei pantaloni estremamente attillati. Lo storico della medicina E.H. Jellinek osserva che la condizione, sia per il forte dolore provocato sia perché altamente sfigurante, “…deve avere messo sotto tensione i suoi rapporti sociali”. Era detestato dalla Chiesa, soprattutto per un famoso commento sulle osservanze religiose romane (compresa quella cristiana): “I diversi culti… erano tutti considerati dal popolo come egualmente veri; dal filosofo come egualmente falsi, e dai magistrati come egualmente utili”. Quale storico “imperiale” Gibbon intimamente si doleva del declino romano di cui scriveva. Una sua preoccupazione—esposta qui di seguito—era che gli imperi per natura fossero troppo grandi e troppo universali, che non lasciavano ai loro soggetti nessuna “via di fuga”. Era sua convinzione che la varietà politica della società europea potesse tutelare da questo rischio:
“La divisione dell’Europa in un numero di Stati indipendenti, connessi però gli uni con gli altri per la generale somiglianza di religione, di lingua e di costumi, produce le conseguenze più utili per la libertà del genere umano.
Un moderno tiranno, a cui non facessero resistenza i rimorsi ed il popolo, troverebbe ben presto un efficace ritegno nell’esempio de’ suoi uguali, nel timore della presente censura, negli avvertimenti de’ suoi alleati, e nelle minacce de’ suoi nemici. L’oggetto del suo sdegno, fuggendo dagli angusti limiti de’ suoi Stati, otterrebbe facilmente in un clima più felice un sicuro rifugio, una nuova fortuna adeguata al suo merito, la libertà di lagnarsi, e forse i mezzi per vendicarsi. Ma l’Impero dei Romani si stendeva per tutto il Mondo, e quando cadde nelle mani di un solo, divenne una prigione sicura e terribile pei suoi nemici.
Lo schiavo del dispotismo imperiale, che fosse condannato a strascinar le sue dorate catene in Roma o nel Senato, o
a passar la vita in esilio sulle rupi scoscese di Serifo, o sulle gelide rive del Danubio, aspettava il suo fato con tacita disperazione. Funesta era la resistenza, e la fuga impossibile. Per ogni parte era cinto da una vasta estensione di mare e di terra, ch’esso non mai poteva sperar di valicare senza essere scoperto, preso, e restituito al suo Sovrano irritato.
Al di là dei confini, la sua vista ansiosa non iscopriva che l’Oceano, deserti inospitali, tribù nemiche di Barbari, di costumi feroci e di linguaggio sconosciuto, o Re dipendenti, che con piacere avvrebber comprato la protezione dell’Imperatore con il sacrificio di un reo fuggitivo. ‘Dovunque siate’, dice Cicerone all’esiliato Marcello, ‘ricordatevi che voi siete egualmente nel potere del conquistatore’.”
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