Si apre l’anno di Dante e dentro l’anniversario dei 700 anni dalla morte del Poeta, datata nel 1321, c’è un’altra curiosa doppia ricorrenza che riguarda i venti anni dalla riesumazione del Conte Ugolino della Gherardesca (morto nel 1289) e quella che si potrebbe definire la sua ‘rivincita’ su Alighieri. Perché in effetti, lo studio eseguito vent’anni fa sui resti di Ugolino, colui che “la bocca sollevò dal fiero pasto” e per il quale “più che ‘l dolor poté ‘l digiuno”, protagonista del XXXIII canto dell’Inferno, dove Dante lo condanna e lo ‘incontra’ nel cerchio dei Traditori, ‘smentì’ la macabra narrazione di cannibalismo che si deduce dalla Commedia, rivelando che, in realtà, Ugolino era morto d’inedia. Il celebre Conte è difatti sepolto a Pisa, nella chiesa di San Francesco, dove le sue ossa, nel giugno del 2001 furono riesumate e identificate assieme a quelle dei figli Gaddo e Uguccione e dei nipoti Nino il Brigata e Anselmuccio. Le analisi e le ricerche affidate all’antropologo Francesco Mallegni, professore ora in pensione dell’Università di Pisa, rivelarono che tutti e cinque morirono di fame e di sete durante gli otto mesi di prigionia, e che quindi Ugolino non mangiò i propri figli come invece appare dalle parole di Dante nel celebre canto dell’Inferno.
La riesumazione dei resti avvenne venti anni fa non senza polemiche, perché per molto tempo si preferì ritenere che le spoglie di Ugolino fossero state trasportate a Firenze e sepolte in Santa Croce come “martire del guelfismo”, non potendo per questo giacere nella ghibellina Pisa, che il Conte aveva persino tradito. Gli studi di Mallegni smontarono anche le credenze e le polemiche che ne seguirono, perché quando fu asportata la lastra della tomba nella cappella dei Della Gherardesca dentro la chiesa di San Francesco a Pisa, (i Della Gherardesca erano patrocinatori della chiesa), venne fuori un cartiglio con due verbali del 1902 e del 1928 che ricordavano la rimozione dei resti che, nel tempo, erano stati più volte spostati ma sempre in luoghi di pertinenza della chiesa. L’analisi delle ossa confermò l’età degli individui, compresa fra i 70 e i 18 anni, e la loro parentela secondo parametri morfologici e metrici, mentre le ricerche sul Dna, affidate al professor Caramelli dell’Università di Firenze, rivelarono che due dei cinque personaggi condividevano la stessa madre, cioè Ildebrandesca, moglie di Ugolino. A stravolgere la leggenda arrivò poi l’analisi nutrizionale dalla quale emerse la presenza preponderante di magnesio, rispetto ad altri elementi, indicatore di una alimentazione a base di cereali, quindi di farine. Da qui l’idea che essi furono alimentati con pane, confermando così le storie che parlavano di un regime alimentare a base di pane e acqua. I cinque morirono di inedia quando fu tolta loro infine anche l’acqua. La ricorrenza dei vent’anni dalla riesumazione delle spoglie del Conte Ugolino, assieme ad altre importanti testimonianze di storia e di arte, riabilita in qualche modo, nella geografia dantesca, la città di Pisa che proprio Dante nella Commedia aveva definito “vituperio de le genti”. Ugolino assieme a figli e nipoti morì di fame e di sete dopo otto mesi di prigionia nella famosa Torre della Muda (così chiamata perché qui, durante il periodo della muta, venivano rinchiusi al buio i falconi allevati dal Comune di Pisa), poi ribattezzata Torre della Fame e oggi inglobata nel palazzo dell’Orologio, sede della Biblioteca della Scuola Normale, nella piazza dei Cavalieri a Pisa. Proprio sotto questa Torre, nel 1993, il Comune di Pisa organizzò il Processo al Conte Ugolino. Un regolare tribunale con corte, pubblico ministero e collegio difensivo davanti a centinaia di persone decretò infine l’assoluzione di Ugolino dall’accusa di alto tradimento della Repubblica pisana. La tomba di Ugolino e dei figli e dei nipoti si trova ancora oggi dentro la chiesa di San Francesco e sempre da qui proviene la tomba monumentale della sua famiglia, i della Gherardesca, divisa oggi fra il Camposanto Monumentale in piazza dei Miracoli e il Museo Nazionale di San Matteo, e opera dello scultore Lupo Di Francesco attivo nel 1300.
Ma a Pisa c’è un’altra tomba che rafforza più di quanto s’immagini il rapporto fra Dante e la città. E’ quella dell’Alto Arrigo, Enrico VII di Lussemburgo, l’imperatore del Sacro Romano Impero cui Dante dedicò il De Monarchia. Arrigo fu sepolto a Pisa, secondo la sua volontà, in Duomo, nel sarcofago realizzato dall’artista Tino di Camaino. La sua morte avvenne all’improvviso, nel 1313, a Buonconvento durante l’assedio di Siena. Per molto tempo si credette che fosse morto per malaria o per avvelenamento, ma nel 2013, l’analisi dei suoi resti riesumati e studiati ancora una volta dal professor Francesco Mallegni rivelò che l’Alto Arrigo era morto a causa dell’antrace, forse contratto dal cavallo, e che gli fu fatale l’uso dell’arsenico, usato come curativo per una grossa piaga nera che gli si era formata a uno dei ginocchi. Lo studio di Mallegni riuscì a ricostruire anche il rituale della deposizione dei resti. La testa fu separata dal corpo e le due parti bollite poi separatamente. Poi le ossa furono spolpate e arse. Proprio al seguito della corte di Enrico VII, Dante sarebbe giunto a Pisa intorno al 1312. Ha preso difatti corpo l’ipotesi di un soggiorno pisano di Dante, non attestato dalle fonti, ma di cui era convinto Marco Santagata, uno dei più accreditati dantisti italiani e professore dell’Università di Pisa, morto a causa del Covid nel novembre passato. Nel 2015, per i 700 anni dalla nascita del Poeta, in occasione di un convegno dedicato a Dante e all’imperatore Arrigo VII, Santagata aveva ipotizzato che Dante avesse soggiornato a Pisa per quattro anni, a partire dal 1312. Qui, secondo Santagata, a disposizione di Dante, che meditava la stesura di un trattato politico, c’era una biblioteca giuridica che avrebbe potuto consultare assieme ai testi legislativi prodotti dalla cancelleria imperiale. Nel suo soggiorno di quegli anni, fra Pisa e Lucca, Dante avrebbe quindi composto la Monarchia, gran parte del Purgatorio e non pochi canti del Paradiso. Poi il trasferimento a Verona.
C’è infine un altro luogo a Pisa collegato in qualche modo a Dante e si trova in piazza dei Miracoli, dentro il Camposanto Monumentale. È l’affresco con il Trionfo della Morte, realizzato dal fiorentino Buonamico Buffalmacco – più giovane di Dante e contemporaneo di Boccaccio -, che avrebbe ispirato il compositore Franz Liszt non solo per il capolavoro del Totentanz, la “Danza della Morte”, ma anche per la “Dante Symphonie”. In un saggio della musicologa Maria Teresa Storino, esperta di Liszt, si cita una lettera che il compositore ungherese scrive a Berlioz durante il suo soggiorno a Pisa, a San Rossore: “Dante – scrive Liszt – ha trovato la sua espressione pittorica in Orcagna e Michelangelo (…)”. Quello di Orcagna era il nome del presunto autore del Trionfo della Morte poi individuato in Buffalmacco, presente nelle novelle di Boccaccio, i cui affreschi nel Camposanto di Pisa, in particolare quello dell’Inferno, mostrano sorprendenti affinità con la Commedia dantesca.