L’uomo ragno compie 60 anni. Walter Zenga, portiere e bandiera di Inter e nazionale, oggi spegnerà sessanta candeline. Una vita, la sua, vissuta in simbiosi con il calcio. Giudicato uno dei portieri più forti di sempre – tre volte consecutive portiere dell’anno per l’IFFHS tra il 1989 e il 1991 – e due volte in top 20 nella corsa al Pallone d’Oro ha legato la sua carriera ai colori nerazzurri di cui è stato prima tifoso e poi estremo difensore. Per lui 473 partite con la maglia dell’Inter, squadra con cui ha vinto uno scudetto, una supercoppa e due Coppe Uefa, ma soprattutto simbolo dei tifosi che lo hanno sempre considerato uno di loro, sia per i suoi trascorsi in curva Nord, sia per il suo carattere guascone e gli atteggiamenti da star del cinema. All’Inter fece tutta la trafila delle giovanili e, prima di diventare il secondo di Bordon e poi il titolare della squadra per cui tifava fin da bambino, giocò in prestito a Salerno, Savona e San Benedetto del Tronto. In nerazzurro, come da lui raccontato, fece di tutto, dal raccattapalle fino a servire nel bar della società. Zenga era amato per diversi motivi. Per il carisma e il temperamento sicuramente, ma anche e soprattutto per l’amore verso il gesto plastico, per l’eleganza e per i riflessi felini che gli valsero il nome di “Deltaplano” coniato da Gianni Brera. Nonostante questo soprannome fu un altro a farlo passare alla storia, quello che lui stesso si diede. Sul finire del ’91 venne estromesso da Sacchi dal giro azzurro e uscendo dagli spogliatoi iniziò a cantare ‘Hanno ucciso l’Uomo Ragno’ degli 883, venendo immediatamente ribattezzato dalla stampa come il celebre personaggio a fumetti. Era nella sua indole. Nel descriverlo, molti giornalisti della sua generazione, spiegavano come “amasse aspettare l’avversario in porta”. In pratica – a differenza di molti era portiere di posizione – Zenga amava la sfida, il duello con il rivale, come un eroe dei fumetti appunto. Tornato all’Inter nel 1982, rimarrà nerazzurro fino al 1994, difendendo la porta nella stagione dei record, anno in cui subirà soltanto 19 gol in 33 presenze, anche grazie ad una difesa solida e impenetrabile. Nel 1990 è stato titolare nella spedizione azzurra ai mondiali in casa. Rimase imbattuto per 517 minuti di fila, fino alla semifinale in cui – dopo un errore in uscita – subì un gol su colpo di testa di Claudio Caniggia. L’eliminazione ai rigori restò una ferita indelebile per il portiere meneghino che in nazionale – con 58 presenze – risulta tuttora il terzo estremo difensore più utilizzato dopo Buffon e Zoff. Dopo aver terminato la sua esperienza in nerazzurro passò alla Sampdoria, poi al Padova e infine andò negli Stati Uniti, dove iniziò nel 1998 anche la sua carriera da allenatore. Divenne giramondo, tra Romania, Serbia, Turchia, Emirati Arabi e Arabia Saudita, poi Inghilterra, Italia tra A e B fino ad arrivare a marzo sulla panchina del Cagliari, squadra dove non ha mai potuto esordire per lo stop imposto dal coronavirus. Una carriera di vittorie, personali e di squadra, da giocatore e allenatore con un solo sogno: tornare all’Inter per sedersi in panchina. La stessa che odiava da giocatore è adesso quella che più desidera il tecnico dei rossoblu che, come disse dimostrando il suo amore per i colori nerazzurri: “Il giorno in cui l’inter mi chiamerà, potrò pure morire”.