Il braccio di ferro tra Russia e Arabia Saudita manda a picco la quotazione del petrolio Wti, crollata stamattina del 30% a 29,4 dollari al barile, i minimi dal 2016. A spingere al ribasso il mercato è stata la decisione di Riad – che ha garantisce il 12% dell’estrazione mondiale – di tagliare di 6-8 dollari il prezzo al barile e di aumentare a 10 milioni di barili al giorno dal prossimo aprile la sua produzione, con la possibilità di salire a 12 milioni. Gli sconti degli sceicchi sauditi sono figli del flop della riunione dell’Opec della scorsa settimana, convocata per decidere possibili tagli alla produzione destinati a sostenere il valore dell’oro nero. L’Arabia e i paesi del Golfo avevano proposto di ridurre di 1,5 milioni di barili la disponibilità sul mercato. La Russia però – che non fa parte direttamente dell’organizzazione dei paesi produttori ed è stata messa di fronte al fatto compiuto – ha detto di no. Scatenando il terremoto che sta regalando oggi ai mercati il peggior crollo dal 1991, all’epoca della guerra del Golfo. La decisione saudita di inondare il mondo di greggio a basso prezzo ha un obiettivo chiaro: provare a mettere alle corde Mosca (e la sua economia che dipende molto dal petrolio) per costringerla a tornare al tavolo delle trattative e concordare un calmieramento dell’offerta. La Russia ha bisogno di un prezzo del barile superiore ai 40 dollari per riuscire a generare un attivo di bilancio.
L’effetto sulla benzina
I prezzi dell’oro nero hanno già pagato nelle scorse settimane un pedaggio salatissimo al coronavirus. L’epidemia ha bloccato l’economia a livello globale, le industrie si fermano, le compagnie aeree non volano. E la domanda di idrocarburi è andata a picco. Il valore di un barile di Wti era già scivolato dai 63 ai 41 dollari prima del ko di oggi. I valori di stamattina, in teoria, dovrebbero comportare una calo del prezzo della benzina in Italia di 15 centesimi al litro. Le conseguenze di questa Caporetto – specie se le quotazioni rimarranno a lungo su questo livello – rischiano di essere enormi. La Russia non è l’unica che rischia di pagare un prezzo salato: i destini di molte altre economie, come quelle di Nigeria, Norvegia, Messico e Iraq sono legati a filo doppio ai prezzi del petrolio. L’industria dello shale oil Usa (un prodotto più costoso da estrarre) è carica di debiti e rischia di finire fuori mercato e di vede saltare molti dei suoi protagonisti. Riad, grazie alle sue riserve, ha in mano il rubinetto della produzione mondiale e volendo può condizionare da sola i prezzi per molto tempo: tra il 1985e il 1986 gli sceicchi hanno spinto al ribasso del 60% le quotazioni per arginare il boom dell’industria dell’estrazione Usa; qualche anno più tardi il barile è addirittura sceso sotto i 10 dollari durante un braccio di ferro con il Venezuela.
Le conseguenze geopolitiche
La guerra tra Russia e Arabia sullo scacchiere del greggio rischia anche di rimescolare le carte degli assi geopolitici in un quadrante delicato come quello mediorientale e del Golfo. Negli ultimi anni le relazioni tra Vladimir Putin e la famiglia regnante di Riad erano molto migliorate e i due paesi hanno spesso avuto posizioni vicine in molte delle partite politiche in quest’area geografica. Un asse che le polemiche di questi giorni rischiano di far saltare destabilizzando ancora di più una regione mondiale che è già una polveriera.
Ettore Livini, Repubblica.it