Al CES 2019, la grande fiera dell’elettronica che si è tenuta la scorsa settimana a Las Vegas, Apple come di consueto non era presente. L’azienda di Cupertino però ha colto l’occasione per una frecciata ai concorrenti, posizionando un gigantesco cartellone pubblicitario con la scritta “What happens on your iPhone stays on your iPhone” (“quel che succede sul tuo iPhone rimane suo tuo iPhone”), una parafrasi dello slogan della città dei casinò e del divertimento sfrenato. Una trovata che si inscrive nel solco dell’ormai pluriennale campagna di Apple a difesa della privacy.
Il cartellone di Las Vegas era l’anteprima di una nuova tornata di iniziative mediatiche sul tema della protezione dei dati, che ora si concretizza ulteriormente con un editoriale firmato da Tim Cook e pubblicato oggi su Time. Il tono dell’articolo è chiaro fin dall’apertura. “Meritiamo tutti di avere il controllo delle nostre vite digitali”, scrive il CEO di Apple. “Ecco perché dobbiamo porre un freno ai trafficanti di dati”.
Come ha già dimostrato più volte in passato, scontrandosi con altri pesi massimi del calibro di Mark Zuckerberg, Cook non ha paura di affrontare il tema con piglio politico. Si schiera così apertamente dalla parte di chi chiede a gran voce nuove leggi a tutela della privacy, definita un “diritto umano fondamentale”. Già convinto sostenitore della bontà di soluzioni come la GDPR , la stringente regolamentazione europea sulla protezione dei dati entrata in vigore a maggio scorso, ora il CEO di Apple ha concentrato l’attenzione sul mercato americano. Anche in patria Cook ha intenzione di far valere il peso politico della sua azienda per far approvare nuove leggi al congresso sullo stile della regolamentazione europea. I tempi sono più che maturi, dopo l’annus horribilis di gravi scandali che ha investito Facebook.
La nuova impalcatura legislativa, secondo Cook, dovrebbe basarsi su quattro principi fondamentali. Il diritto “alla minimizzazione” dei dati raccolti dalle aziende, con l’obbligo di rendere anonime quante più informazioni possibili. Poi il diritto alla conoscenza, cioè a sapere sempre “quali e quanti dati sono stati raccolti e perché”. Terzo, l’obbligo di semplificare l’accesso ai dati e di facilitarne la gestione e la cancellazione. Infine, in quarta istanza, il diritto alla “sicurezza dei dati”, senza la quale non è possibile instaurare un rapporto di fiducia tra l’utente e l’azienda.
A ottobre 2018, durante la 40ma Conferenza internazionale sulla protezione dei dati e della privacy organizzata presso il Parlamento Europeo, Tim Cook aveva già tenuto un discorso molto importante , anche in quel caso in completa controtendenza rispetto al consenso generale della Silicon Valley. In quell’occasione l’Amministratore Delegato di Apple aveva anche descritto un “complesso informativo-industriale” che usa i dati come “armi da usare contro di noi con efficienza militare”, indicandolo come il più grande pericolo dello sviluppo tecnologico contemporaneo.
“Non dovremmo indorare la pillola: questa è sorveglianza. E queste enormi quantità di dati personali servono solo ad arricchire le aziende che li raccolgono”, aveva detto Cook. “Per fortuna quest’anno [l’Europa] ha mostrato al mondo che si può trovare un punto d’incontro per proteggere i diritti di tutti. Dovremmo tutti celebrare il lavoro delle istituzioni europee che hanno implementato con successo le regole della GDPR”.
È esattamente questo che Apple vorrebbe anche negli Stati Uniti. Una legge o un corpus che limiti lo sfruttamento dei dati e l’abuso con pene severe, ma che contribuisca anche a “smascherare coloro che trafficano con i nostri dati alle nostre spalle”, cioè proprio quei complessi informativi-industriali di cui Tim Cook aveva denunciato l’esistenza nel suo discorso a Bruxelles.
“Nel corso di questo dibattito ci saranno molte proposte e interessi contrastanti che i legislatori dovranno tenere di conto”, chiosa Cook nella chiusura del suo articolo su Time. “Non possiamo però perdere di vista il gruppo di interesse più importante, costituito da tutti gli individui che vogliono riprendersi il proprio diritto alla privacy. La tecnologia ha il potenziale di cambiare il mondo per il meglio, ma non riuscirà mai a realizzarlo senza la fiducia delle persone che la utilizzano”.
Andrea Nepori, La Stampa