
A fine gennaio Apple ha raccontato la radicale trasformazione che aveva in programma per il suo App Store (e non solo) per adeguarsi alle nuove normative europee. L’aggiornamento è poi arrivato a marzo, all’entrata in vigore del Digital Markets Act, la legge pensata appositamente per creare un ambiente digitale più favorevole alla competizione. Ma sembra che per l’Unione europea non si sia fatto abbastanza. Secondo il Financial Times la Commissione Ue sarebbe pronta, nelle prossime settimane, ad accusare formalmente Apple per aver «soffocato la concorrenza sul suo Store» in quanto «non sta rispettando l’obbligo di consentire agli sviluppatori di app di “indirizzare” gli utenti verso offerte al di fuori del suo App Store senza imporre loro commissioni». La decisione, rivelata da due fonti, arriverebbe dopo mesi di analisi sui cambiamenti apportati alla piattaforma: la Commissione Ue aveva aperto un’indagine a marzo non solo su Apple, ma anche su Alphabet e Meta.
L’indagine su Apple
Il Digital Markets Act, entrato in vigore il 7 marzo, chiede ai cosiddetti «gatekeepers» (società con almeno 45 milioni di utenti attivi) di modificare le proprie piattaforme digitali per creare un ambiente più favorevole alla competizione e al libero mercato. Sono sei le società che secondo i parametri rientrano nella definizione di gatekeeper: Google, Apple, Meta (Instagram, Facebook e WhatsApp), Bytedance (TikTok), Microsoft e Amazon. Tutte si sono date da fare per modificare le proprie piattaforme – in Unione europea – così da rispettare la normativa. In particolare Apple ha aperto per la prima volta il suo ecosistema, permettendo l’installazione di Store di terze parti sull’iPhone da cui gli utenti possono scaricare app, che quindi non passeranno più per il suo processo di verifica. Questo dà ovviamente più libertà agli sviluppatori, ma ha posto anche dei dilemmi sulla sicurezza del dispositivo stesso, che non è più protetto dallo stretto controllo di Apple. Anche per quanto riguarda i pagamenti in-app, c’è stata un’apertura, con la possibilità per gli sviluppatori di poter offrire delle proprie forme di acquisto indipendenti dalla struttura dell’App Store. Il punto focale dell’indagine – così come delle proteste di alcune società creatrici di app, guidate dal colosso europeo Spotify – potrebbe la Core Technology Fee. Ovvero una sorta di «tassa» per poter usufruire dei servizi e della tecnologia di Cupertino pensata per chi decide di non passare dall’App Store (e dunque che non paga le commissioni canoniche). Questa è pari a 50 centesimi per ogni download su ciascun account (dunque un account può valere per più dispositivi) e va ad attivarsi soltanto dopo il primo milione di download.
L’indagine su Alphabet e Meta
Se Apple dovesse essere accusata formalmente di violare il Digital Markets Act, potrebbe andare incontro a una sanzione pari a una cifra che può arrivare fino al 5 per cento del fatturato globale giornaliero, «che in questo momento è di poco superiore al miliardo di dollari», calcola il Financial Times. L’Unione europea, dopo le necessarie indagini, potrebbe decidere di accusare anche Alphabet e Meta. La prima, che è controllata di Google, doveva assicurarsi che in Unione europea i suoi servizi non fossero favoriti sul suo motore di ricerca. In tanti si sono resi conto di una delle prime conseguenze – la scomparsa dei link a Google Maps tra i risultati – ma secondo le autorità è importante fare di più. Rimangono i «rimandi veloci» a Google Shopping o Google Hotel. Meta ha dovuto garantire l’interoperabilità, ovvero dare la possibilità agli utenti di comunicare da WhatsApp ad altre piattaforme di messaggistica. Ma non era l’unica richiesta della Commissione Ue. Sotto indagine c’è il modello «pay or consent», ovvero l’abbonamento introdotto dalla società per Instagram e Facebook. Solo se si decide di sottoscriverlo – quindi di pagare – le piattaforme social non raccoglieranno i nostri dati per la profilazione. E questo, per la Commissione Ue, significa che non viene fornita una reale alternativa nel caso in cui gli utenti non acconsentano, non raggiungendo così l’obiettivo di prevenire l’accumulo di dati personali da parte dei gatekeeper.
Michela Rovelli, corriere.it