Una società nuova, nei messaggi e nel posizionamento. E nella struttura, perché non gestirà più la rete fissa ma se ne servirà come gli altri operatori, per continuare ad offrire tutti i servizi ai clienti. A guidare il cambiamento di Tim è l’amministratore delegato Pietro Labriola, già direttore generale e artefice del rilancio di Tim Brasil, uno dei gioielli del gruppo.
Oggi parte la campagna “La parità non può aspettare”. Cosa porta una società come la vostra a investire su una campagna con al centro il gender gap e non i suoi prodotti?
«In Italia esiste un tema legato al gender gap ed esiste, purtroppo, la violenza sulle donne. Non pensiamo di risolvere la situazione, ma da azienda leader, è giusto prenderci le nostre responsabilità per favorire il cambiamento. Lanceremo una campagna con messaggi chiari, fondati sui dati, come “La parità di genere sarà raggiunta solo nel 2155” oppure “Le donne manager nelle imprese italiane sono solo il 20,5%”. Tappezzeremo le strade della città e come testimonial avremo gente comune, anche nostre colleghe, in cui tutte possono riconoscersi. Il prossimo mese i nostri spot durante le partite di calcio trasmetteranno messaggi soft contro la violenza, si vedrà una famiglia che si tingerà il volto con un segno rosso».
E in azienda cosa state facendo?
«Abbiamo cambiato la composizione dei consigli di amministrazione di tutte le società del gruppo, portando a oltre il 40% la partecipazione delle donne. Tra gli obiettivi economico finanziari rientrano il ruolo manageriale delle donne e l’azzeramento del gender pay gap».
State attraversando una “rivoluzione” con la cessione della rete fissa. Come sta cambiando il gruppo?
«La nuova Tim potrà concentrarsi più di oggi su innovazione tecnologica e servizi e avrà due divisioni, la Consumer e la Enterprise. La prima sarà basata sull’offerta al mercato retail, quello in cui la competizione è più agguerrita, dove, secondo noi, è auspicabile un consolidamento. Qui abbiamo l’obiettivo di essere leader puntando sui servizi. A gennaio lanceremo la nuova versione della nostra app, che ha già circa 10 milioni di utenti. Sarà più user friendly, sia nelle operazioni semplici come la ricarica del telefono e il cambio dei piani tariffari, ma anche nella gestione diretta dei problemi che un cliente può incontrare. Snelliremo i contratti, useremo un linguaggio più diretto con la clientela e semplificheremo le pratiche».
E la Enterprise?
«Si occupa del mercato business, quello della Pubblica amministrazione e delle grandi aziende. Qui non forniamo solo sim e connessioni, ma anche cloud, IoT (internet of things) e Cybersecurity. Possediamo la più grande infrastruttura italiana di Data Center, ben 16, collocati su tutto il territorio nazionale, sui quali si basa la nostra offerta di cloud rivolta anche a giganti come Google e Amazon. Poi non tutti sanno che, attraverso Olivetti, specializzata oggi nello sviluppo di soluzioni che integrano IoT e AI, stiamo realizzando le prime smart city italiane. Ai Comuni offriamo una piattaforma che si chiama Urban Genius. A Venezia, ad esempio, grazie all’adozione dell’Intelligenza artificiale, ai sensori dislocati per la città e alla connessione vengono raccolte molte informazioni, dal numero di persone presenti in città al traffico acqueo, fino al livello dell’acqua alta. La control room analizza i dati e consente di gestirli per gli scopi più vari da quelli più semplici a quelli più complessi come la prevenzione di incidenti e guasti».
Che ruolo ha il Polo Strategico Nazionale nel digitalizzare la Pa?
«Tim, insieme a Cdp, Leonardo e a Sogei ha fondato il Polo Strategico Nazionale per portare la pubblica amministrazione italiana sul cloud in sicurezza attraverso sistemi di protezione dei dati dei cittadini. È un contratto di Tim Enterprise della durata di 13 anni e permetterà alla divisione di crescere da 3 a 5 miliardi di ricavi nel 2030».
I dipendenti come saranno divisi con la cessione della rete?
«Dei 36 mila dipendenti attuali (full time equivalent), 20 mila andranno in NetCo, la società che gestirà la rete, mentre gli altri 16 mila faranno capo alla nuova Tim, divisi in 5mila su Enterprise e i restanti 11mila su Consumer, di cui 4 mila nei call center. Sta qui una delle differenze con gli altri competitor, che affidano questi servizi a soggetti terzi».
Queste iniziative le ritroveremo nel piano che presenterete a marzo?
«Sì e sarà un piano che ridarà un respiro strategico e industriale al gruppo. Grazie alla vendita della rete, non sarà più un piano di sopravvivenza. Anzi possiamo riaccelerare e crescere anche attraverso acquisizioni. Non dico che annunceremo qualche operazione a marzo, ma comunicheremo una struttura finanziaria che ci permetterà di valutare diversi percorsi. Oggi una politica di dividendi, per esempio, è ancora impensabile, ma dopo il closing avremo una struttura di capitale solida (rapporto debito/Ebitda inferiore a 2 volte) che ci permetterà di guardarci intorno con un’altra prospettiva. Magari anche per operazioni sul capitale: il nostro è di 11 miliardi, quando quello di Enel è di 9 miliardi».
Cosa farete?
«Vediamo. Stiamo studiando diverse opzioni, ma di certo non saremo più in una gestione di emergenza. Dobbiamo razionalizzare, abbiamo più di 120 scatole societarie che non hanno più senso o partecipazioni che non sono strategiche».
Ad aprile, un mese dopo il piano, ci sarà l’assemblea per il rinnovo del consiglio. È difficile che Vivendi sostenga la lista del cda. Lei sarà a disposizione?
«Sì, sono a disposizione, ma sono solo uno dei 15 del consiglio di amministrazione. Spetterà al board valutare se presentare una propria lista di candidati. Dopodiché si attiveranno tutte le procedure previste per arrivare all’assemblea».
Ma si poteva anche non vendere la rete?
«Andavano prese delle decisioni che non sono mai state affrontate negli ultimi dieci anni. Il rischio di non riuscire a finanziare il debito oggi è davvero elevato e se le cose vanno male, è l’amministratore delegato a pagarne le conseguenze. Se al nostro Ebitda (margine operativo lordo), togliamo il capex (investimenti in conto capitale), ci restano solo i soldi per pagare gl interessi sul debito. In uno scenario di tassi in rialzo, si va incontro a una crisi finanziaria. Quindi o si vende qualcosa o si fa un aumento di capitale, che nessuno voleva fare. Separare la rete dai servizi, invece, ci consente di focalizzarci sui clienti e sull’innovazione. L’integrazione verticale tra la rete fissa e i servizi ci ha penalizzato sul piano regolamentare. I nostri prezzi di mercato sono regolati mentre quelli dei nostri concorrenti no».
Quanto debito dovete rifinanziare?
«Nove miliardi di euro nei prossimi tre anni. Ma esiste un problema non solo di costo del debito, anche di rifinanziamento. Lo scorso anno ce l’abbiamo fatta, non è detto che ci riusciremo sempre. C’è concorrenza tra chi chiede finanziamenti quindi dobbiamo essere bravi nel rimborsare i creditori e soprattutto credibili verso il mercato».
Per la rete, serviva un’assemblea straordinaria?
«In Italia la legge prevede quali sono gli obblighi del consiglio e quali dell’assemblea. Quando il consiglio non prende una decisione che gli spetta si espone a dei rischi, come eventuali azioni di responsabilità. Nel nostro caso la decisione spettava al consiglio e dunque non dovevamo esimerci dal deliberare. Quando in Italia e in Europa sono state vendute le torri della telefonia mobile, oppure gli immobili delle centrali telefoniche, non sono state indette assemblee straordinarie. E non smetti di essere un operatore mobile se vendi le torri e le continui ad utilizzare in affitto. Lo scopo sociale non cambia».
Ma se con l’assemblea del prossimo anno cambia il management di Tim, chi arriva dopo di voi può fermare l’operazione di vendita della rete? «Non esiste una clausola di way out».
Sarebbe meglio trovare un accordo fra tutti…
«Abbiamo sempre lavorato in questa direzione e non smetteremo di fare gli interessi di tutti gli azionisti e provare a trovare un accordo che soddisfi tutti».
Walter Galbiati, Repubblica.it