All’allora fidanzato Italo Bocchino, poi diventato marito, gli fece fare una comparsata nel ruolo di un cameriere nel suo secondo film da produttrice, «La bruttina stagionata». Racconta divertita Gabriella Buontempo: «Era il 1992, ci eravamo appena conosciuti. A quel tempo Italo non era ancora deputato, ma lavorava come assistente di Pinuccio (Giuseppe) Tatarella nell’Msi. La cosa curiosa fu che, quando nel 1995 ci sposammo, la cosa fece scalpore!».
Perché?
«Nel partito della Destra Nazionale, gli adepti si sposavano tra loro, mentre io, che appartengo a una famiglia napoletana notoriamente socialista, non ne facevo parte: insomma, era la prima volta di una coppia, diciamo così, “anomala” per il partito di Italo, e addirittura Lucia Annunziata scrisse in un articolo su di noi. Col senno di poi, è davvero divertente…».
Col senno di poi, perché molti anni dopo, il matrimonio è finito…
«Sì. All’inizio per me è stata un’esperienza devastante, un processo dolorosissimo prima di arrivare alla separazione, ma per fortuna lo scorrere del tempo fa sciogliere tutti i nodi. Siamo due persone dotate di buon senso, e soprattutto abbiamo due figlie, Antonia di 21 anni e Eugenia di 20, quindi condividiamo la genitorialità: non andavamo bene come marito e moglie, ma andiamo bene come genitori, un compito che continuiamo a svolgere scrupolosamente e su cui siamo molto uniti. Abbiamo trovato un nostro equilibrio, un rapporto civile anche di affetto».
Riavvolgiamo il nastro: come e perché ha iniziato a fare la produttrice cinematografica e televisiva?
«Sin da adolescente ero appassionata al mondo del cinema, ma non sapevo esattamente cosa volevo fare. Essendo molto timida di carattere, non ero portata per niente alla recitazione, non mi immaginavo assolutamente attrice, semmai regista: lo stare dietro la macchina da presa non mi esponeva, però mi consentiva di esprimermi. Ho frequentato una scuola di regia a New York, ma sono figlia di un imprenditore visionario: mio padre, oggi novantenne, non solo si occupava di costruzioni, ma ha fatto l’editore, fondando due quotidiani, a Napoli e in Puglia, e poi ha creato la prima linea aerea privata alternativa all’Alitalia, Airblu. Quindi ho nel Dna lo spirito, l’imprinting da imprenditore ed è quello che faccio, anche perché, nel mio percorso formativo, ho avuto la fortuna di incontrare Lina Wertmüller».
Come la conobbe?
«Era amica di famiglia e, in uno degli incontri con i miei, le raccontai che stavo frequentando una scuola di regia e che parlavo bene l’inglese. Lina mi propose: perché non vieni da me a farmi da assistente? Avevo solo ventidue anni e mio padre disse: vai pure, Lina può essere la tua nave-scuola. E infatti è stata la mia grande maestra, di lavoro e di vita, perché proprio standole a fianco ho capito che il mio vero interesse non era per la regia, bensì per la produzione, cioè la costruzione, il dietro le quinte che ti porta a realizzare un progetto cinematografico. Ho iniziato assistendola nella produzione del suo film Il decimo clandestino, poi in quello che è stata la prima pellicola sull’Aids, In una notte di chiaro di luna, girato tra Londra, Parigi, Venezia… E poi ho accompagnato Lina in numerosi viaggi spettacolari nel mondo. A volte sapeva essere molto dura, addirittura violenta, per ottenere il risultato che voleva da un attore».
Aggressiva?
«Più che aggressiva, violentemente apprensiva. Una volta, stavamo girando una scena dove un attore non faceva quello che lei gli stava indicando. Io le ero seduta a fianco, come sempre, e inizia a darmi pizzicotti sul braccio. Capivo che c’era tensione, ma non sapevo cosa fare, se reagire a quei pizzichi feroci oppure no. Decisi di tacere, ma la sera, mentre eravamo a cena, lei nota il mio braccio pieno di lividi e mi chiede preoccupata: Che ti sei fatta? Che ti è successo?».
Cosa rispose?
«Molto semplicemente: sei stata tu! E Lina, preoccupatissima, mi portò in farmacia e mi comprò creme, unguenti, una montagna di roba: si sentiva in colpa. Quando poi decisi di allontanarmi per iniziare il mio percorso da produttrice, lei lo ha vissuto come un abbandono e mi tese una sorta di tranello».
Davvero?
«Lina sapeva che detestavo essere davanti alla macchina da presa. Con un pizzico di sadismo mi propose di andarla a trovare a Napoli, dove stava girando Sabato, domenica e lunedì, dall’omonima commedia di Eduardo De Filippo. Andai con piacere sul set e poi… mi costrinse a fare una comparsata nel film, la pretese come una sorta di prova d’amore: per me fu come buttarmi nel fuoco, ma non mi sottrassi: un gesto d’affetto nei confronti di una persona che era stata e resta un punto di riferimento molto importante».
Un altro punto di riferimento molto importante: sua zia Graziella Lonardi Buontempo, collezionista d’arte e mecenate.
«Fondamentale nella mia crescita professionale, precedente a Lina. Avevo 12-13 anni, i miei genitori si stavano separando, ero afflitta dallo sfascio della mia famiglia e la zia, per distrarmi, mi portò con lei a Parigi, dove stava allestendo una mostra al Beaubourg: il mio primo viaggio all’estero!».
Che ricordo ne ha?
«Andammo insieme al Centre Pompidou, pieno di artisti che stavano sistemando le loro opere per l’allestimento, ovviamente diretti dalla zia: scoprii il mondo della creazione, ne restai folgorata, mi resi conto che un museo non è un luogo noioso, bensì pieno di idee, di vita, di follia, di arte. In quel momento, capii che la zia faceva un lavoro affascinante, che mi piaceva molto. E pensare che, quando ero più piccola, insieme ai miei tre fratelli maschi la chiamavamo Crudelia Demon».
Perché?
«Eravamo quattro discoli, ne combinavamo di tutti i colori e, quando veniva a farci visita a casa, trovava i nostri giocattoli buttati dappertutto, i cani che impazzavano ovunque, un disordine pazzesco che lei — signora elegante, bellissima, altezzosa — non poteva accettare. Non avendo figli, lei non era abituata a quel casino. Ci urlava di mettere in ordine, io correvo a nascondermi. Poi però sono diventata la sua mascotte preferita. Dopo la sua morte, ho ritrovato per casa una dedica che mi aveva scritto, non ricordo in quale occasione: “A Gabriella, augurandoti di superarmi”».
Emilia Costantini, Corriere.it