
(di Tiziano Rapanà) Ci si industria a dare un nome alla generazioni di ragazzi che scalpitano per rivendicare il loro sacrosanto posto nel mondo. Si genera ma non si degenera, purtroppo. X, Y, Z e via così. Degenerare come rigenerarsi per disattendere ogni aspettativa. Ma l’essere umano cerca il proprio ruolo in società, la caselletta per vivacchiare e possibilmente non sfigurare di fronte all’esistente. E dunque si sta dentro una generazione anche volentieri, perché è bello fare massa. C’è chi si interroga e vuole capire di più questi ragazzi. Bene, bravi bis. Sempre con la stessa smania di volerli comprendere, ma la gioventù non va capita bensì abolita. Non essere giovani per esserlo sempre. E invece no, ci si tuffa volentieri nel fiume del conformismo. Li capisco. Purtroppo a vivere in altro modo si paga il prezzo della solitudine e dell’emarginazione e molti non reggono. I ragazzi devono staccarsi dal disegnino sulla gioventù, si deve ridurre la cosa a bazzecola anagrafica. Purtroppo molti ci credono e ne fanno un tratto distintivo: sono giovane e la penso così, ascolto questo, faccio quest’altro eccetera. Gen Z? No, semmai Poke. Magnamose er poke, perché salutare e di moda. Nulla contro il piatto di origine hawaiana, ne provai una variante tempo addietro e posso parlarne bene. Però il manducare à la page non lo tollero. Dio ci scampi e liberi dalle mode, dal principio delle ideologie (anche gastronomiche). C’è chi mi dirà: sei catafratto nell’armatura del pregiudizio, bisogna aprirsi al nuovo. E chi lo nega? Ma ogni volta che la presunta novità entra nella classifica di ciò che è bello, giusto e buono da fare allora si entra nel pensiero apodittico che non si può confutare. Purtroppo è sempre così, certe mode non si possono mettere in discussione. Chi lo fa diventa ignorante da qui all’eternità e non c’è possibilità di recupero: egli è irredimibile. Poi se chiedi a questi signori lumi o curiosità sulla glossematica di Hjelmslev fanno scena muta. Concludendo, poke si o no? Certo che sì, purché non lo si veda come un elemento identitario della gioventù o peggio ancora un modo per percorrere la via che porta al salutismo.