(di Tiziano Rapanà) Una classifica realizzata da TasteAtlas, una guida gastronomica digitale eminente che si occupa di piatti e cibi di ogni parte del globo, incorona l’Italia a reginetta del buon manducare. È stata ufficialmente eletta miglior cucina del mondo. Dobbiamo stupirci? La consistenza culturale e creativa della nostra cucina ci dovrebbe essere nota. Eppure molti di noi snobbano colpevolmente le nostre gemme. Ad una sana carbonara si preferisce un prodotto, frutto di un ardito – quanto indigesto – sperimentalismo. Si parla ancora di nouvelle cousine e nessuno che tessa le lodi del fegato alla veneziana. Mai una volta che si spendano parole d’amore per il celeberrimo quinto quarto. Ho scritto, di recente, un’ode alla trippa. La prediligo a tutto il superfluo autocelebrativo degli aspiranti vincitori di stelle e stelline varie. Prima o poi deve sparire l’ubbia che trafigge i piatti poveri della nostra tradizione. La pasta e fagioli è un patrimonio nazionale da tutelare, eppure nessuno ne parla con attenzione. Alla cotoletta alla milanese si è preferito l’hamburger. Per non parlare della ignominiosa ascesa del kebab. Una buona insalata di riso vale più di 1000 pokè messi assieme. Eppure c’è una certa acrimonia nel raccontare il bello e il buono – cito il titolo di una vecchia rubrica di Edoardo Raspelli – della cucina italiana. Gli stranieri ci rammentano la nostra peculiarità più nota e forse inconsciamente ci redarguiscono nel non saperci valorizzare, nel darci sempre la zappa sui piedi. Archiviamo una volta per tutte la cucina molecolare, le innovazioni senza senso. Abbandoniamo la logica del fast food e riscopriamo la bellezza delle nostre tradizioni.