La terapia adiuvante cambia radicalmente il volto della chirurgia del melanoma e del carcinoma squamocellulare avanzato. È quanto emerge dal XXVII Congresso Nazionale dell’Intergruppo Melanoma Italiano, in corso a Torino. Negli ultimi due anni i farmaci somministrati allo scopo di ridurre il rischio di recidiva hanno migliorato la sopravvivenza dei pazienti e hanno permesso una chirurgia più mirata; ad oggi sono diminuiti dell’80% gli interventi sui linfonodi sentinella positivi con metastasi microscopiche, sono calate le dissezioni linfonodali inutili, mentre sono incrementate notevolmente le metastasectomie di pazienti un tempo ritenuti inoperabili. Non solo, l’immunoterapia si affianca alla chirurgia migliorando notevolmente la sopravvivenza anche dei pazienti con tumore avanzato purché sia gestito con un approccio multidisciplinare e le varie opzioni vengono discusse da un team di specialisti che concorda la sequenza delle terapie e degli interventi. “La chirurgia del melanoma – spiega Roberto Patuzzo, chirurgo presso la Divisione Melanoma e Sarcoma dell’Istituto Nazionale Tumori di Milano – è diventata sempre più mirata e complessa poiché sono cambiate le indicazioni grazie alle terapie adiuvanti, con il risultato che si è modificata la tipologia del paziente ricoverato”. “In pratica – sottolinea Pietro Quaglino, professore associato di Clinica Dermatologica dell’Università di Torino – la chirurgia è ‘disegnata’ sul paziente e anche se non è più la prima scelta è un tassello fondamentale del percorso di cura multidisciplinare”. Se in passato la prassi richiedeva la biopsia del linfonodo sentinella e successivamente, in caso di positività, la dissezione radicale completa della stazione linfonodale corrispondente, attualmente, grazie alle nuove indicazioni, molte di queste asportazioni sono diventate inutili e si può iniziare la terapia medica adiuvante intervenendo chirurgicamente solo quando il linfonodo è palpabile e visibile ecogragicamente, in uno stadio molto più avanzato. Conquiste che da un lato migliorano notevolmente le prognosi, ma che dall’altro hanno reso più complessa la gestione chirurgica di questi malati che spesso si cronicizzano, presentando ricadute o risposte miste. “Oggi – dice Patuzzo – oltre a operare come sempre il primo, il secondo e, soprattutto, il terzo stadio di malattia, interveniamo anche sul quarto stadio e sulle metastasi perché eliminandoli chirurgicamente e somministrando poi al paziente terapie mirate lo rendiamo di nuovo libero dalla malattia”. “Più che il numero delle asportazioni dei linfonodi – aggiunge Corrado Caracò, responsabile della Chirurgia del Melanoma e tumori cutanei all’Istituto Nazionale Tumori Fondazione Pascale di Napoli – è cambiato il profilo del paziente che oggi entra in sala operatoria quando nel linfonodo la malattia è clinicamente evidente”. Sempre meno le indicazioni per le quali si interviene con una positività del linfonodo sentinella. Ma per gli under 18 e gli over 80, così come i soggetti con morbilità che non possono assumere i farmaci adiuvanti, l’indicazione della linfoadenectomia radicale rimane il trattamento di scelta con intento curativo. Cambia anche l’approccio chirurgico del non melanoma, in particolare del carcinoma squamocellulare avanzato. “Nel 50% dei pazienti – afferma Caracò – l’immunoterapia offre risultati importanti, riducendo le dimensioni del tumore e rendendolo circoscritto e operabile. Un successo che si traduce in un aumento della sopravvivenza e della qualità di vita di questi pazienti. Tuttavia, tutto questo funziona se il malato oncologico di stadio avanzato viene preso in carico in centri nei quali esiste un team multidisciplinari, dove il dermatologo, l’anatomopatologo, l’oncologo, il radiologo, il genetista e il chirurgo si confrontano stabilendo il percorso terapeutico migliore. Ora le carte da giocare le abbiamo, ma se le usiamo male la partita è persa”. “L’appello che lanciamo – conclude il presidente Imi, Ignazio Stanganelli, drettore della Skin Cancer Unit IRCCS Istituto Romagnolo per lo Studio dei Tumori e professore associato dell’Università di Parma – è incrementare i centri di eccellenza nei quali gli specialisti si confrontino e seguano le indicazioni dettate a livello internazionale”.