
Web tax italiana al tramonto. Roma si impegna con gli Stati Uniti per ritirare l’imposta unilaterale sui servizi digitali, la Digital services tax (Dst). Si chiudono così le minacce dei dazi Usa sui prodotti del made in Italy. Ieri, oltre all’Italia, altri quattro paesi europei (Austria, Francia, Spagna e Regno Unito) hanno definito i termini dell’accordo transitorio per il passaggio dalle attuali web tax verso la nuova soluzione Ocse che permetterà di tassare i giganti del digitale attraverso principi comuni. L’8 ottobre è stato raggiunto lo storico accordo tra 136 paesi del Quadro inclusivo dell’Ocse sulla riforma delle fisco internazionale per le società fondato su due pilastri, da attuare entro il 2023. «Nel complesso», si legge nel comunicato congiunto, «questo accordo politico bilancia attentamente le prospettive di diversi paesi ed è un’ulteriore dimostrazione del nostro impegno a lavorare insieme per raggiungere un consenso e per realizzare riforme multilaterali di vasta portata che aiutino a sostenere le nostre economie nazionali e le finanze pubbliche». Per ora, le web tax saranno in vigore fino a quando sarà efficace il primo pilastro della riforma Ocse, quello che permette la tassazione dei giganti di internet. Tuttavia, i paesi hanno stabilito che sarà offerto un credito fiscale per rimborsare l’ammontare della tassa raccolta in eccesso se l’accordo Ocse fosse stato implementato prima. Da parte sua, gli Stati Uniti hanno accettato di abbandonare dazi di ritorsione che avevano emanato, e temporaneamente sospeso, contro i cinque paesi. Italia, Austria, Francia, Spagna e Regno Unito avrebbero preferito che «l’abrogazione delle misure unilaterali fosse subordinata all’attuazione del Primo Pilastro, mentre gli Stati Uniti avrebbero preferito che l’abrogazione delle Misure Unilaterali fosse immediata a partire dall’8 ottobre 2021», data in cui è stato raggiunto l’accordo politico rispetto al Primo Pilastro. Tuttavia, l’accordo «tutti paesi che hanno adottato Misure Unilaterali prima dell’8 ottobre 2021, non sono tenuti a abrogare le proprie Misure Unilaterali fino all’effettiva applicazione del Primo Pilastro». È quindi stabilito un rimborso «nella misura in cui le imposte maturate» nei 5 paesi in relazione alle web tax prima dell’effettiva applicazione del Primo Pilastro, eccedono l’importo dovuto ai sensi del Primo Pilastro nel primo anno intero di attuazione. L’eccedenza sarà quindi detratta «dalla porzione di imposta sul reddito delle società dovuta ai sensi del Primo Pilastro rispettivamente in questi paesi». Facile prevedere, nonostante la portata fiscale estremamente ridotta del primo pilastro Ocse, che l’Italia non dovrà restituire somme ingenti dato lo scarso successo della web tax del Belpaese. In totale, 49 società hanno versato 233 milioni di euro nel 2021. Un debutto sotto le aspettative di 700 milioni dell’imposta del 3% sul fatturato sui servizi digitali offerti dalle multinazionali del digitale in Italia (si veda a ItaliaOggi di ieri). Amazon, la principale società Usa attiva in Italia, ha versato poco più di 10,4 milioni di euro, mentre Google 11,5. L’imposta è dovuta da tutte le imprese, anche non residenti, con ricavi globali di almeno 750 milioni di euro, e con almeno 5,5 milioni di euro di fatturato derivanti da determinate attività digitali in Italia. Il versamento dell’imposta è avvenuto il 17 maggio scorso in relazione ai servizi del 2020. Il Primo Pilastro della riforma Ocse redistribuisce verso i paesi-mercato i diritti di tassazione delle multinazionali che praticano attività commerciali e guadagnano profitti nel proprio paese, indipendentemente dal fatto che abbiano una presenza fisica in loco. In particolare, saranno coperte le multinazionali (circa 100) con un fatturato mondiale superiore a 20 miliardi di euro e una redditività superiore al 10%. I paesi-mercato potranno tassare con l’aliquota nazionale il 25% dei profitti (esclusa una prima soglia del 10%). L’Ocse calcola che saranno spostati più di 108 miliardi di euro di profitti ogni anno verso i paesi-mercato. A fine marzo gli Stati Uniti avevano minacciato dazi del 25% sui prodotti del fashion Made in Italy per un ammontare di 140 milioni di dollari (120 milioni di euro).
Matteo Rizzi, ItaliaOggi