“Circa il 45% delle imprese è strutturalmente a rischio”, soprattutto nei settori a basso contenuto tecnologico e di conoscenza, mentre solo l’11% risulta “solido”: è la fotografia scattata dall’Istat. Gli effetti economici più devastanti riguardano le attività legate al turismo. E la crisi “accentua il divario tra le aree geografiche”: le più colpite sono le regioni del Centro-Sud
Quasi la metà delle imprese italiane sono “strutturalmente a rischio”, solo l’11% risulta “solido”, una su tre pensa di non farcela a superare la pandemia. È questa la fotografia scattata dall’Istat nel Rapporto 2021 sulla competitività dei settori produttivi.
L’effetto più devastante è sul settore del turismo mentre, a livello territoriale, le più colpite sono le regioni del Centro-Sud.
Una “mappa della solidità” delle imprese indica che “circa il 45% di esse è strutturalmente a rischio“, soprattutto nei settori a basso contenuto tecnologico e di conoscenza. All’opposto, “solo l’11% delle imprese risulta solido e sarebbe interessato in misura marginale dalla crisi”. Si tratta, spiega l’Istat, “di imprese con capitale umano qualificato superiore alla media, maggiori dimensioni economiche (misurate in un’accezione più ampia dei soli addetti), un più intenso utilizzo di tecnologie digitali“.
Circa il 30% delle imprese è rimasto “spiazzato” dalla pandemia. A novembre 2020, “quasi un terzo delle imprese considerava a rischio la propria sopravvivenza, oltre il 60% prevedeva ricavi in diminuzione e solo una su cinque riteneva di non avere subito conseguenze o di aver tratto beneficio dalla crisi”. I provvedimenti di lockdown introdotti in Italia e all’estero, si legge nel rapporto, hanno svolto “un ruolo non marginale nella contrazione del valore aggiunto dei settori italiani” e in Italia il valore aggiunto è “diminuito dell’11,1% nell’industria in senso stretto, dell’8,1% nei servizi, del 6,3% nelle costruzioni e del 6% nell’agricoltura”.
Gli effetti economici più devastanti riguardano le attività legate al turismo. La quota di chi segnala seri rischi di chiusura è elevata nelle attività delle agenzie di viaggio (oltre 73%), in quelle artistiche e di intrattenimento (oltre 60%), nell’assistenza sociale non residenziale (circa 60%), nel trasporto aereo (59%), nella ristorazione (55%).
Nel comparto industriale risaltano le difficoltà della filiera della moda: abbigliamento (oltre 50%), pelli (44%), tessile (35%). La crisi ha colpito soprattutto le imprese di piccola e piccolissima dimensione, attraverso un crollo della domanda interna e della liquidità, e ha “prodotto divisioni sul territorio”, anche a causa delle misure di contenimento della pandemia su base regionale. In 11 regioni, si legge nel rapporto Istat, “almeno la metà delle imprese presenta almeno due di tre criticità che le denotano a rischio Alto o Medio-alto (riduzione di fatturato, seri rischi operativi e nessuna strategia di reazione alla crisi)”. Sette sono nel Mezzogiorno, una al Nord e tre nel Centro Italia. Un indicatore territoriale di “rischio combinato” (sintesi del rischio per imprese e addetti) mostra che la crisi “accentua il divario tra le aree geografiche: delle sei regioni il cui tessuto produttivo risulta ad alto rischio”, cinque appartengono al Mezzogiorno (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania e Sardegna) e una al Centro (Umbria). Le sei a rischio basso sono tutte nell’Italia settentrionale: Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Provincia autonoma di Trento.
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