E celebre romanziere, inviso ai benpensanti, s’invaghì di uomini e donne: sensuale e impulsivo, ma anche freddo e razionale. Tra i tanti amori, il più tormentato fu quello per Elsa Morante, diventato ossessivo a causa della gelosia e dei tradimenti
(di Cesare Lanza per LaVerità) Alberto Pincherle (e in seguito Moravia) nacque a Roma nel 1907, «in un palazzo liberty di Via Sgambati, una traversa di via Po, che affaccia su Villa Borghese, con il Museo omonimo bene in vista, poco lontano dall’Uccelliera e dal Giardino zoologico Fu un bambino inconsueto e diverso, ipersensibile: passava ore a guardare i fiori del giardino, ed è proprio grazie ad essi che imparò il significato della parola «sessualità» termine su cui rimuginò a lungo, a causa della tubercolosi ossea che lo colpì e che lo relegò a letto per alcuni anni (e fu anche questo, insieme alla sua insofferenza cronica, a impedirgli di ottenere un titolo di studio). È Io scrittore stesso a parlare: «Da giovane, durante la malattia che mi colpì alle ossa, ero terribilmente solo. Con una definizione elegante il dottore del sanatorio mi definì schizoide. Infatti, mi capitava di identificarmi con chiunque e di dimenticare me stesso. Mi trasformavo nell’altro, anche un mio nemico, tanto da scordare le mie ragioni. Vedevo solo gli altri, non me stesso. Se uno si soffiava il naso era come se me lo soffiassi io. La parte delegata all’esterno era irresponsabile, poteva fare quello che voleva e non si offendeva se mi davano dell’imbecille, perché il mio vero io non entrava in campo, non poteva essere ferito da nessuna Questa è una chiara forma di schizofrenia acuta. Ma è anche una capacità che mi ha permesso di scrivere. L’identificazione esclude l’esperienza e implica una conoscenza irrazionale, per divinazione, cioè indovino esattamente le cose come sono nella realtà, pur non avendole vissute. Apparivo come uno scemo, dicevo tante stupidaggini, a forza di identificarmi con gli altri non rimaneva niente di me a la gente diceva che ero incapace di ragionare» Letto questo estratto, viene naturale comprendere la passione di quell’Alberto bambino (che ritroviamo in. alcune foto, vestito da marinaretto) per le donne nude, maltrattate, che trovava nelle illustrazioni di Gustave Dorè dell’Orlando Furioso, occorre sapere che quello stesso bambino scoprì la masturbazione all’età di nove anni, ma fu proprio lui a sviluppare una certa resistenza alle passioni che via via gli si presentarono nel corso della sua giovinezza. Ma non troppo.
Un giorno, in uno dei suoi numerosi viaggi in treno, Moravia conobbe un uomo decisamente più grande di lui, di cui si invaghì e che lo iniziò alla frequentazione più o meno assidua (in gioventù) dei bordelli e alla lettura di Dostoevskij a tal punto che, fino alla fine, lo scrittore si definì «dostoevskijano». A quest’amicizia ne seguiranno tante altre, tutte di stampo omosessuale e adulto – e non si può, a questo punto, non pensare ad un acuto spirito di conversazione del giovane scrittore. Ma ecco i quattro vizi preminenti. Russia di Dostoevskji a parte, è proprio l’omosessualità un tema cardine, in maniera più o meno implicita, della scrittura moraviana: quello sfizio (vizio) che mai pensò di togliersi, sebbene, a sua detta, ne avesse avuta l’occasione svariate volte; quell’omosessualità che torna e ritorna nei suoi personaggi principali o secondari, non conta: ciò che conta è che, nel bene o nel male, gran parte dei suoi caratteri letterari si troveranno a dover fronteggiare questo amore «invertito», come lo definirebbe l’italiano medio degli anni Sessanta. E tutto questo perché, in vita, Alberto conobbe e frequentò gli omosessuali dell’ambiente intellettuale – da Dario Bellezza, a Pier Paolo Pasolini, a Sandro Penna – e così le sue donne, in particolare la (presunta) tanto amata Elsa Morante, sua prima moglie che, ricordiamo, si invaghì follemente del regista Luchino Visconti, a tal punto da tormentarlo tutti i giorni andandolo a trovare nel suo studio e inviandogli quotidianamente poesie o anche
regali. Dopo la pubblicazione del suo primo romanzo, Gli Indifferenti (1929) influenzerà tutta la sua scrittura futura. Il fratello del Duce, Arnaldo Mussolini, scrive così: «Vorremmo sapere se la gioventù italiana deve leggere i libri di Dekobra, inventore di facili avventure decadenti,
di Remarque, distruttore della grandezza della guerra, e di Moravia, negatore di ogni valore umano». In particolare, viene accusato dalla critica – e non a torto, direi – di antiborghesismo, che l’autore definì sempre non intenzionale. Troviamo, quindi, altri due vizi del Nostro: la condanna della borghesia e (l’accusa di) fascismo, quest’ultimo facilmente intercambiabile con una semplice parola: «opportunismo». Il Pincherle proveniva da un ambiente certamente borghese, ed è per questo che maturerà in lui un comportamento di stampo borghese, che mai lo lascerà, che lo porterà a presentarsi sempre «inappuntabile» e che diverrà motivo di condanna per la sua prima moglie, che adottava almeno all’inizio – una dieta bohémienne. Ma il suo occhio critico e il rapporto amore-odio per la madre (musa di una vita) lo porteranno, con successo letterario, a smontare e disarmare questa vita di convenzioni, di abitudini e inutili schemi, sebbene egli stesso dichiarò sempre di essere in cerca di normalità, quantomeno matrimoniale.
Collegato alla borghesia troviamo l’opportunismo, che lo vede prima simpatizzante di Benito Mussolini attraverso varie lettere, al fine di conquistarsi una posizione stabile giornalistica, e poi in cerca di approvazione da parte dei rivoltosi – non rivoluzionari – del’68, che però gli chiuderanno le porte (a lui e a Pier Paolo Pasolini) con l’accusa di tradimento, avendo avuto vari percorsi col Pei. «Sebbene odiasse il fascismo, gli pareva di averlo nel sangue, non in forma di adesione politica, beninteso, ma come una specie di torpore o passività mortale, simile a quella che infonde un veleno che ci attossichi e svigorisca. Era di nuovo il suo vecchio sentimento di impotenza, ma questa volta non ristretto
ai suoi fatti personali ma allargato fino ad abbracciare i destini delle nazioni e dell’umanità che lo paralizzava e gli infondeva una specie di mortale inerzia». A questo atteggiamento potremmo rispondere adducendo alla «vita controvoglia» svolta da Alberto Moravia – il che giustificherebbe il suo farsi, volgarmente, intortare dalle varie donne della sua vita, scrittrici e
non. Ma forse al contempo italian lover, sfaccettatura che fece infuriare Jean-Paul Sartre: vedendo Io scrittore italiano alle prese con una formosa attrice, si creò un definitivo ritratto negativo dell’alterego di Michele Ardengo (uno dei protagonisti de Gli Indifferenti), che di conseguenza non ricevette mai alcuna particolare attenzione dal padre dell’esistenzialismo. Mi sento di affermare, scrive la Di Veroli, «pur nella mia ignoranza», che la creatività, ancor prima della scrittura, fu per Moravia un’ancora di salvezza: nel racconto L’amante infelice si parla di una donna, per cui il protagonista arriverà quasi a compiere un omicidio, dettato naturalmente dalla gelosia e dal rifiuto subito. Il quarto vizio porta il nome di Elsa Morante: fu il loro un amore burrascoso, se di amore si può parlare, visto che l’uomo dopo la morte della scrittrice dichiarò sempre di non averla mai amata – le lettere tra di loro dimostrano comunque il contrario. Elsa era gelosa, ossessiva e compulsiva, ma terribilmente appassionata. Soffriva per l’incomprensione tra di loro, che partiva addirittura dalla letteratura facilmente notabile nello stile dei due: al romanticismo («Un albero, un animale, un bambino sono sempre belli.
Quello che è naturale è sempre bello») della donna si contrapponeva l’esistenzialismo di Alberto; tutta l’opera morantiana è concentrata sui suoi ricordi di infanzia e di adolescenza – poiché ella non amava la «rugosa» realtà, che fuggiva – mentre quella moraviana si concentra sul concreto, sull’attuale, altrimenti «stava male». Quest’ultimo soleva dire delle sue donne scrittrici che aveva dovuto sudare sette camicie per insegnar loro a
scrivere e non a sognare. Al quattro segue il cinque, come a Elsa Morante segue la parola «tradimento»: in quanto era tremendamente passionale ed impulsivo, la piccola donna ebbe numerosi amori (soffrendo intanto di quelli del marito) che raccontava al consorte ai piedi del letto, al ritorno la sera, addirittura anche a matrimonio concluso. Doveroso è sottolineare la
sopportazione di Alberto, al fine – dichiarato – di trarre spunto per qualche romanzo da inserire nella sua prosa che ricorda, a detta di Bertolucci figlio, lo «spirito dell’architettura razionale del periodo fascista». Questo silenzio moraviano si manifestò anche per la sua terza moglie, Carmen Llera, sebbene malcelato. Occorre ricordare anche La noia. Il romanzo uscì
nel 1960 e si iniziò a parlare subito di romanzo-saggio, sebbene non riscosse mai il successo desiderato, il libro non venne semplicemente capito. Alla noia, Moravia attribuisce il merito della sua produttività letteraria – scrive infatti alla sorella che, se egli viaggiasse molto come pur desidera, non potrebbe scrivere così tanto, in quanto la noia svilisce, ma ti mette nelle
condizioni di vedere. Al momento della pubblicazione, l’autore aveva 53 anni e faceva coppia fissa con la giovanissima Dacia Maraini.
Dalla metà degli anni 60 si parlerà di Moravia come di un uomo totalmente solo e disperato di una disperazione religiosa, forse perso in quei vizi che
sfogava mangiando voracemente e obbligando i commensali a stare al suo passo, per poi sgridarli se chiedevano una doppia porzione di dolce, poiché «mangiare troppo fa male, non lo sai?». Ma le donne ci furono, quelle sempre. Al suo funerale si riunì tantissima gente in un profondo silenzio, incoraggiato da Umberto Eco con l’invito ad approfondire la scrittura del
defunto, ma sempre e comunque in silenzio. E quest’invito venne ascoltato: quasi nessuno più scrive tesi di laurea su Alberto Moravia. «Con la morte finisce tutto» ha detto teatralmente cupo, una sera, stringendosi nelle spalle. Lo pensava davvero? Chissà! Il più noto romanziere italiano, che faceva schiumare di rabbia i benpensanti, amava infatti farsi coccolare e le
inventava tutte per arrivare allo scopo. Indispensabile ricordare, infine, i tre grandi amori della sua vita (oltre a innumerevoli, casuali avventurette). Elsa Morante, Dacia Maraini, Carmen Llera. Tre scrittrici, la prima ormai consacrata nell’Olimpo dei grandi, a titolo diverso tutte e tre notissime e non conformiste, anzi spesso suscitatrici di scandali. Elsa fu l’amore più
forte e complicato, spesso interrotto e però mai esaurito, fino alla morte di lei. Era fantastica, imprevedibile, artista romanticamente preda della sua arte: la donna insieme alla quale Moravia attraversa gli anni del fascismo e del dopoguerra con un legame sempre intenso e quasi segreto.