Gli oltre 120 miliardi di maggior deficit imporranno scelte drastiche. Pure successioni e donazioni a rischio
«Stiamo facendo sforzo incredibile per non creare nuova tassazione». Le parole pronunciate dal premier Giuseppe Conte mercoledì scorso non inducono all’ottimismo. Occorre, perciò, vedere quali siano i dati di partenza per prefigurare uno scenario che, purtroppo, è al di là del futuribile, ma potrebbe diventare terribilmente attuale. L’Italia nello scorso agosto aveva un debito pubblico di 2.578,9 miliardi di euro, un valore monstre «lievitato» con i
Decreti Emergenziali che hanno comportato uno scostamento di bilancio di 100 miliardi. A questi bisogna aggiungere gli ulteriori 22 miliardi di deficit previsti dalla legge di Bilancio 2021. In questo discorso non rientrano né gli oltre 120 miliardi di cui il Paese dovrebbe beneficiare dal Recovery Plan né i 37 miliardi del Mes sanitario se richiesto.
La Nadef pur scontando l’ipotesi di un secondo lockdown (crollo del Pil da -9 a -10,5% nel 2020), è soprattutto improntata a rimettere in sesto i conti pubblici nel medio termine, cioè entro la fine del decennio. Considerato che la vita media del debito pubblico italiano è di circa 7 anni, questo significa che il premier Conte e il ministro dell’Economia Gualtieri (in foto) si sono formalmente impegnati con l’Ue a ripagare il maggior deficit in quell’orizzonte. Questo significa impegnarsi non solo a restituire i 22 miliardi della manovra 2021 ma anche qualcosa di quello che si è già preso a prestito sul mercato, cioè se non proprio tutti i 100 miliardi almeno una buona metà. Questo significa che ogni anno del prossimo decennio lo Stato dovrà assicurare, quanto meno, tra i 5 e i 7 miliardi di maggiori entrate.
Come prenderli? L’esempio spagnolo non è incoraggiante. Il primo ministro Sánchez ha varato una Finanziaria con una mini-patrimoniale, un aumento delle aliquote Irpef sui redditi alti e un aumento delle imposte sui capital gain oltre a varie tasse green. E nella maggioranza, a partire da Leu, c’è chi vorrebbe seguirne l’esempio. Il pensiero corre al 1992 quando fu introdotto un prelievo forzoso sui conti correnti. Al 30 settembre sui depositi bancari c’erano 1.682 miliardi di euro, l’equivalente del Pil italiano. Basta «arraffare» un 3 per mille per portare in cassa 5 miliardi in un colpo solo.
Sarebbe, però, un’entrata straordinaria. Per assicurarsi un gettito costante basterebbe aumentare l’aliquota del 26% sui capital gain, sui dividendi e sulle cedole delle obbligazioni nonché le imposte sostitutive sul valore dei fondi pensione. Nel 2019 queste tasse hanno determinato un gettito di oltre 10 miliardi di euro, dunque aumentandole si potrebbe recuperare almeno un miliardo. Altri 4 miliardi potrebbero aggiungersi reintroducendo l’Imu sulla prima casa (ipotesi caldeggiata dal commissario Ue Gentiloni) oppure rimodulando gli estimi catastali.
Anche le imposte indirette lasciano margini di manovra sul fronte patrimoniale. Basterebbe ritoccare le imposte di bollo (in totale 6,5 miliardi nel 2019), in primis quella sui conti correnti o quella sulle successioni e donazioni che l’anno scorso ha drenato «solo» 766 milioni. La scelta, come si vede, è ampia. Ecco perché, purtroppo, bisogna aver paura.
Gian Maria De Francesco, Ilgiornale.it