Totti impassibile al tavolo da poker Neanche una pantegana lo sconvolse
Una partita con Francesco in un albergo sardo. A un certo punto urla e strepiti per un grosso topo piombato in giardino. Lui rimase freddo e rilanciò su Tosatti. Che perse e gridò come sempre faceva: «È solo fortuna» Interminabili notti con colleghi e amici di una vita. Cacciati di
casa da mogli infieriate. Quando nacque mia figlia non lo seppi: giocavo a casa di Recanatesi Anche quando lavoravo a Genova si organizsavano belle partite con Dardanello, Meroni, estroso anche con le carte, e altri rossoblu
Cesare Lanza
Un lettore che è anche un mio amico, ma non un giocatore-mi ha scritto: «Leggo sempre i tuoi articoli, anche gli ultimi sui Casinò e l’azzardo – ma non capisco perché scrivi esclusivamente di persone famose! Penso che ai lettori interesserebbe sapere qualcosa delle tue esperienze private e degli uomini e delle donne – anche non celebri con cui ti sei incontrato e scontrato al tavolo verde…». Spero dunque, oggi, che il mio amico abbia
ragione: lo accontento e mi auguro che ;li altri lettori non si annoino, arò i nomi e quasi sempre anche i cognomi, comunque nei miei ricordi qualche personaggio famoso c’è. Risalgo a metà degli anni Sessanta, quando ero un pischello, giornalista praticante al Corriere dello Sport. L’editore era Franco Amodei, illuminato e competente. Il direttore, Antonio Ghirelli.
Il caporedattore, Giorgio Tosatti: temutissimo perché urlava e si incazzava come oggi non si fa più (i tempi sono cambiati, il sindacato non consente scenate). Tosatti era un professionista giovane e bravissimo, dietro la maschera da duro e l’apparente cinismo era evidente la sua
umanità: mi insegnò moltissimo. A Giorgio piaceva moltissimo il poker. Dopo la fine del lavoro, spesso si giocava a un tavolo formato da lui e da me, da Franco Recanatesi, Enzo Chiore – un correttore di bozze, napoletano, il più bravo – e da Massimo Lo Jacono. Con noi si alternavano saltuariamente altri giovani, sfigati e solitamente perdenti. Ricordo una notte memorabile in casa di Giacomo Mazzocchi, un gran giornalista, popolare, negato per il poker quanto era competente in atletica leggera, rugby e altri sport nobili. Era il 1966. A un certo punto la moglie di Giacomo uscì dalla camera da letto strillando con il figlioletto in braccio: Marco, all’epoca in fasce, divenuto poi anche lui, e tuttora lo è, un ramoso telecronista in Rai.
«Basta! Non si può dormire… C’è un neonato. Urlate, litigate, fumate… Non se ne può più! Andate via…», strillò, con assoluta ragione. Senza scomporci, silenziosi e disciplinatamente, ci alzammo in piedi, raccogliemmo le fiches, le carte e tutte le nostre cose, e uscimmo di casa. Erano le due! Sul pianerottolo Tosatti domandò: «E ora che si fa? Dove andiamo, dove
proseguiamo?». Lo Jacono si offrì di ospitarci a casa sua e lì andammo, e ci fermammo per uno o due giorni, con brevi pause. Se la memoria non mi inganna, era in atto uno sciopero dei giornalisti, con tempo libero a nostro piacimento. Che tempi! Eravamo viziosi di poker e di telesina, incalliti. Con rossore ricordo che quando nacque la mia prima figlia, a Cosenza, non
lo seppi subito: ero impegnato in una partita a casa di Recanatesi. Seppi di essere diventato papà, all’alba, quando passai dal giornale e il portiere mi salutò con entusiasmo: «Complimenti, dottore!» All’epoca non c’erano i telefonini: i miei parenti, non sapendo dove rintracciarmi, avevano telefonato in redazione per darmi la lieta novella. La figlioletta aveva
avuto la bella idea di nascere con dieci giorni di anticipo.
Partii subito per la Calabria. Ma ritorno agli anni Sessanta. Giorgio Tosatti era un bravo e forte giocatore, aggressivo, autoritario. Ma aveva un grave difetto, peraltro molto diffuso: non sapeva perdere. Al tavolo da gioco non esisteva il rispetto che eravamo obbligati a portargli in redazione, e perciò lo sfottevamo. Quando perdeva una mano importante, puntualmente urlava: «Hai vinto, ma hai giocato malissimo, non sai giocare!». E ricordo una volta che così gridò anche a me, quando provò a inchiodarmi con un bluff e un rilancio gigantesco, che metteva a repentaglio le mie
modeste risorse. Contro ogni logica, andai a vedere il suo punto, e vinsi. Lui si incazzò di brutto, io gongolavo per il piattone che portavo a casa e sibilai: «E adesso paga!». Certamente Giorgio era favorito dalle sue maggiori possibilità economiche, ma ancor oggi ricordo l’episodio e non mi perdono la mia volgare scorrettezza: non si infierisce mai, con battutacce qualsiasi osservazione, sul perdente. Ho già scritto che il miglior giocatore al
tavolo era Chiore, il correttore, amico personale di Ghirelli. Il pupillo di Enzo era Franco Melli, anche lui correttore all’inizio di una carriera che poi lo ha visto affermarsi come un giornalista autorevole.
Chiore sosteneva che Melli (che ogni tanto si misurava con noi al gioco, ma il poker non era roba per lui) fosse potenzialmente un grande, raffinato scrittore; e noi probabilmente nell’intimo avevamo invidia per questi elogi. La qualità di Chiore pokerista si fondava su uno schema elementare: se le sue carte erano inferiori, si ritirava subito (la maggior parte dei giocatori, sbagliando, confida sempre di poter migliorare); se invece aveva
un punto superiore, giocava tutto ciò che aveva, per indurre gli avversari a passare. «Mi gioco tutto», diceva puntualmente, in queste occasioni. E alla fine delle sue partite vinceva quasi regolarmente. Prima di essere assunto a Roma al Corriere dello Sport, avevo vissuto anni felici a Genova, da dilettante «abusivo», come si diceva a quei tempi. E anche a Genova c’era
un bel tavolo di poker, nella bella casa in corso Italia di Piero Dardanello: lui, io, Alberto Lievore, general manager del Genoa; e Gigino Meroni, stella nascente del calcio e della squadra rossoblù (per cui facevo e tuttora faccio il tifo), l’allenatore Benjamin Santos, spesso anche Giampaolo Piaceri, attaccante genoano. Meroni era un artista con il pallone ai piedi, ma anche con le carte: estrosissimo.
Non si capiva mai quando fosse in bluff o quando avesse un punto vincente in mano. Dardanello era un prudente routinier, Lievore (il più ricco) esagerato e forse perdente perché troppo aggressivo; io ero bravino, ma il mio adorato Gigino faceva ammattire anche me, per la sua imprevedibilità. Come si sa, Meroni morì nell’ottobre 1967, nella notte tra il 14 e il 15. Al pomeriggio il Toro aveva giocato in casa con la Sampdoria, battendola 4-2 con tre reti di Nestor Combin, uno dei migliori amici di Meroni. La domenica successiva era in programma il derby con la Juventus. Combin si lagnò con Gigi: «Avrei preferito segnarli alla Juve…». E Meroni: «Tranquillo, ai gobbi ne farai altri tre ! ». Gigi non poteva sapere che lui non ci sarebbe più stato. Molti, anni dopo, con Tosatti e altri colleghi e amici, ci trovammo in Sardegna d’estate, invitati ad un evento organizzato da Costanzo Spineo (bravo ragazzo e giornalista, ma negato per il poker). C’era anche Francesco Totti e una sera, nel giardino dell’albergo, improvvisammo una partitina a poker. Nei tavoli vicini c’erano mogli, fidanzate, parenti, bambini… Ricordo un episodio che mi dimostrò la freddezza con cui Totti riesce a mantenere il controllo dei nervi, sui campi di calcio e fuori. A un certo momento, mentre giocavamo, da una pianta una pantegana piombò in giardino.
Immaginate le urla, il chiasso e lo strepito delle donne e dei bambini; e, sinceramente, le reazioni nervose di tutti noi. Solo Francesco restò impassibile con le carte in mano: di più, se ricordo bene, tranquillamente rilanciò. Su Giorgio Tosatti! In tanti anni non era cambiato nienteGiorgio perdeva e urlava a Totti, che vinceva, sempre l’identica frase di sempre: «Hai vintO; ma hai giocato malissimo! È solo culo, non sai cosa sia il poker!».
Alla fine della seratina Totti si era pappato tutte le fiches e Tosatti era in netta perdita. Il mio ex caporedattore non aveva valutato un piccolo, decisivo particolare. Si giocava con i resti: così si chiama in gergo una
regola che consentiva a un Tosatti e a noi di giocare contro Totti o, comunque, a un qualsiasi pisquanotto di sedersi a un tavolo con un miliardario di fronte. I rilanci non sono illimitati, ma rigorosamente limitati alla «posta» che si ha davanti, cioè alle fiches concordate. Cosa vuol
dire? Concordiamo che la posta sia di mille euro e le puntate possono arrivare fino ai «resti» che si hanno davanti: non c’è riccone che possa costringerci a passare mano, rilanciando fino a due, dieci, cento milioni! E anche quella sera in Sardegna si giocava con la regola dei resti.
Tosatti però non considerò quanto il poker piacesse a Totti: il campione giocava regolarmente la sua modesta posta e partecipava a ogni puntata, incurante di perdere ed eventualmente ricorrere ad altre poste. Per di più Francesco era in una serata di gran fortuna, seguiva Giorgio, da inferiore, in ogni rilancio; rimontava e vinceva. E Tosatti col suo caratteraccio non
si arrendeva e più perdeva, più strepitava. Ho giocato con Pupo a chemin, con tanti altri giocatori di straordinaria qualità.
Oggi c’è un tavolo di piccole dimensioni: anni fa a queste partite avevo progettato di dedicare un libro. Poi è mancato il tempo, forse è passata anche la voglia. I tempi epici sono finiti, restano i ricordi. Al tavolo di questi giorni restano con me – pensate un po’! – altri due superstiti di quei favolosi anni Sessanta: Franco Recanatesi, che è stato inviato di La Repubblica e direttore de II Venerdì; e Massimo Lo Jacono, ex direttore di Totocalcio. Il primo lo chiamo Frec, e lui mi chiama Clan, ci vogliamo bene da sessantanni. E sempre un buon giocatore, «chiuso», attento, forse meno coraggioso, certo meno fortunato rispetto ai bei tempi. Uguale affetto con Max: ricordo che in trattoria non prendeva mai primo e secondo, ma due primi, innamorato com’era della pasta. Ha avuto qualche intemperanza
per me incomprensibile verso di me, ma abbiamo girato pagina, è un pokerista a volte pericoloso per la sua imprevedibilità. Si gioca a casa di Lino, anziano commercialista in pensione, di Massimo Mazzitelli, giornalista e papà di un ottimo calciatore. Tutti e due sono ottimi anfitrioni (anche se io, da diabetico, devo bere soprattutto acqua). Mazzi, che decine di anni fa era una schiappa, oggi è il migliore al tavolo, per qualità di attenzione e fortuna.
Poi c’è Peppino Boccia, medico e manager, il più offensivo, sia col punto sia in bluff. Paolo Pacelli, che chiamiamo Santità per via del cognome: è quello che più assomiglia al mitico Chiore, ma non è aiutato dalla fortuna. E Sergio, avvocato, che gioca soprattutto per divertimento. E infine cosa dire di me? A ragione gli amici mi sfottono per i miei errori, visto che ho scritto
perfino alcuni libri sul gioco d’azzardo. Però una sera con una scala reale ho schiantato il poker di quel gran signore di Lino. E questa, lettori cari, è una soddisfazione che succede al massimo una volta nella vita di un giocatore.
PUPONE DI GHIACCIO Francesco Totti si è spesso scaldato sul campo. Ma al tavolo è glaciale. [Ansa]