La scelta del social controllato dal gigante cinese ByteDance ricalca quelle di Facebook, Google e Twitter. Il segretario di Stato Usa Pompeo: “Valutiamo il bando”
Che cosa resta della libertà di espressione a Hong Kong, dopo la nuova legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino? Se lo chiedono i cittadini dell’ex colonia britannica, ridotti a protestare senza slogan e con cartelli bianchi, per non incorrere nelle accuse di “sedizione” o “secessione”. Ma se lo chiedono anche i colossi occidentali del web, già banditi in Cina continentale, per cui Hong Kong era rimasto l’unico territorio del Dragone dove operare liberamente. Lunedì Facebook, Google e Twitter hanno annunciato di aver bloccato alle autorità della città l’accesso ai dati degli utenti, in attesa di valutare l’impatto della nuova legge sui diritti fondamentali. Questa mattina poi TikTok, il social network dei mini video nuova ossessione degli adolescenti globali, ha annunciato che interromperà del tutto il servizio a Hong Kong, anche per chi ha già installato la app sul telefono. Ma se la mossa delle piattaforme americane va esplicitamente nella direzione della difesa della libertà di espressione, rischiando di portarle in rotta di collisione con Pechino, quella di TikTok, controllata dal gigante cinese ByteDance, è più ambigua, dettata dalla necessità di non rischiare infortuni né con la Cina né con gli Stati Uniti.
Uno dei timori degli attivisti di Hong Kong, e di molti osservatori, è che Pechino usi la nuova legge per imporre alla città un controllo sul web, finora libero. Se non costruendo una vera e propria muraglia digitale, come in Cina continentale, con limitazioni e censure, per bloccare uno dei principali canali di diffusione del dissenso. Lunedì il governo di Hong Kong ha ulteriormente alimentato queste paure, dichiarando che la legge dà la facoltà alla polizia locale di chiedere alle piattaforme di eliminare contenuti pericolosi per la sicurezza nazionale. Multe e pene detentive, fino a un anno, sono previste per i loro manager, se non si adegueranno. Poche ore dopo è arrivata la reazione, senza dubbio coordinata, dei big tech americani. Facebook, Google e Twitter hanno spiegato che per il momento non tratteranno più le richieste di accesso ai dati degli utenti provenienti dalle autorità della città. Un portavoce del social network di Mark Zuckerberg, sempre più deciso nel criticare la Cina dopo averla a lungo, senza successo, corteggiata, ha spiegato che l’azienda considera la “libertà di espressione un diritto fondamentale” e che verrà fatta una “valutazione dell’impatto della legge sui diritti umani”, consultando degli esperti. Anche Telegram, servizio di messaggistica criptato diventato il principale canale di comunicazione dei giovani mascherati, ha detto che non valuterà alcuna richiesta finché non ci sarà un “consenso internazionale sui cambiamenti in città”. E martedì al gruppo si sono aggiunte anche LinkedIn e Zoom.
Facebook ha un sistema di valutazione delle istanze di accesso ai dati da parte delle autorità uniforme in tutto il mondo. Negli ultimi sei mesi del 2019 a Hong Kong gli sono arrivate 241 richieste, di cui il 46% accettate (51mila quelle ricevute negli Usa, di cui l’88% accettate). La decisione di sospendere la collaborazione con la polizia sembra un tentativo di prender tempo, fino a quando sarà possibile. Se è vero che le principali piattaforme occidentali sono già bandite in Cina continentale, tuttavia gli inserzionisti cinesi che fanno pubblicità all’estero sono per loro una enorme fonte di introiti. Mettersi in rotta di collisione con Pechino potrebbe quindi compromettere le attività e il fatturato “cinesi”, ma piegarsi e collaborare sarebbe ancora più pericoloso, considerato che finirebbe per attirare loro addosso le critiche di governi e utenti in Occidente. Da qui la presa di posizione a difesa dei diritti.
In questa Guerra fredda digitale la posizione di TikTok è ancora più delicata, ben rappresentata dalla stringata motivazione, “visti i recenti sviluppi”, con cui oggi la società ha annunciato la sospensione del servizio. Negli Stati Uniti il nuovo social media cinese dei mini video è sotto i riflettori, anche ieri il segretario di Stato Mike Pompeo ha detto che potrebbe essere bandito, visto il rischio di spionaggio e sottrazione di dati sensibili degli utenti. Quello che TikTok sta cercando di fare per evitarlo è separare nella maniera più netta possibile le attività in Cina (dove l’app si chiama Douyin) e quelle nel resto del mondo, sia dal punto di vista societario che operativo. Ma i rapporti dell’azienda e della casa madre ByteDance sono complicati anche con Pechino, visto che i video di TikTok sono stati usati per diffondere messaggi di protesta anticinesi, anche relativi a Hong Kong. La decisione di chiudere bottega in città, dove l’app aveva solo 150mila utenti su circa due miliardi di download globali, sembra un tentativo di tagliare la testa al toro e togliersi da ogni impiccio, evitando di prendere posizioni politiche. Al confronto, è stato molto più doloroso per la società essere bandita dall’India, il suo primo mercato, ritorsione di Delhi per lo scontro militare con l’esercito cinese nelle alture dell’Himalaya.
Repubblica