«In fondo cosa sono? Un ignorante che si è fatto da solo»
Semplice, ingenuo, sincero e spontaneo, il cantante era atipico nel mondo dello spettacolo. Gli pesavano le ingiustizie dei critici
(di Cesare Lanza per LaVerità) Ha avuto un grande successo, anche duraturo (sono passati undici anni dalla sua scomparsa), ma avrebbe meritato molto di più. È stato il cantore di un’Italia antica, di cui – purtroppo – una certa critica radical chic ingiustamente si vergognava. Di più: con sottovalutazione, derisione. Perfino in casa mia era considerato con un superficiale atteggiamento di indifferenza o superiorità: mia moglie Antonietta, appassionata di musica, sostiene ancor oggi che non fosse al livello dei grandi; la mia prima figlia, Giulia, rifiutò per snobismo una sua lusinghiera proposta di collaborare con lui, da addetta stampa. Per me, invece, è stato un gran personaggio, un amico vero (provo però un rimorso, che vi dirò). Mino Reitano era un calabrese verace, ingenuo, sincero: un cattolico credente e purissimo, patriottico, innamorato come pochi altri della famiglia e della sua terra. Come musicista, un cantante popolarissimo e un autore molto sensibile. Ma molto autocritico, al punto di dirmi più volte di sé ciò che umilmente aveva detto una volta in pubblico, in una intervista: «Sono in fondo solo un ignorante che si è fatto da solo», e tante altre frasi simili, crude e severe (forse, presumo, all’origine c’era la sua rigorosa fede cristiana).
A metà degli anni Settanta entrai casualmente in confidenza con Mino. Mi piaceva. Semplice, ingenuo, sincero: certamente un giovane atipico nel mondo dello spettacolo. Naif: così allora si usava dire se si parlava di lui: senza disprezzo, ma con una evidente sfumatura di sarcasmo. Mi conquistava la sua naturale spontaneità. Un giorno – dirigevo il Corriere d’Informazione – Reitano mi invitò a passare una mezza giornata nella sua villa attigua a Milano, ad Agrate Brianza: prima una sfida a pallone – nella villa c’era un campo di calcio – tra la nostra redazione e una squadra composta da lui e dai suoi numerosi familiari. Poi, un pranzone con le specialità della sua (e mia) terra di origine, la Calabria. «Non parliamo sempre di canzoni e di ambizioni! Ci sono pensieri ben più importanti… Dio, la Madonna, gli affetti veri verissimi, non te ne pentirai!». Altri, e anch’io in altre occasioni, sarebbero scoppiati a ridere. Invece si fece una bella risata lui, quando vide la mia faccia attonita. «Insomma, mi disse con allegria, ti propongo una sfida a pallone, e poi vedrai che bel pranzetto calabrese ti faccio preparare». Della partita di calcio non ricordo nulla. Nella nostra formazione c’erano giovani giornalisti destinati a diventare famosi: Ferruccio de Bortoli, Vittorio Feltri (se non sbaglio, in porta), Massimo Donelli, Gian Antonio Stella, Francesco Cevasco, Gigi Moncalvo, Edoardo Raspelli… Il pranzo invece è rimasto indimenticabile. Non solo per le ghiottonerie Calabre, straordinarie, ma perché nelle tavolate eravamo seduti solo noi maschi, i componenti delle due squadre insieme con vari sostenitori, amici e parenti di Reitano. Neanche una donna! Le donne, comprese la moglie e le sorelle di Mino servivano a tavola: precise, impeccabili, pronte a prevenire ogni minimo desiderio dei convitati. Una ipermeridionalità tradizionale, tramandata da padre in figlio per certe grandi occasioni (e non solo), esportata pari pari in Brianza. Su tutto e tutti era dominante la figura del papà, Rocco: un personaggio da film, taciturno e autorevole, seduto alla mia destra, che si impone alle donne, rispettose e ubbidienti, con qualche occhiata e le indicazioni di una mano. Seduto alla mia sinistra, Mino mi sussurrava: «Oggi non si canta, non si scrive: si mangia. Chissà da quanto tempo non mangi calabrese… Hai nostalgia della Calabria? Io sempre, sempre nel cuore». E tra ‘nduia, bianchetti e cullurielli, si metteva davvero – felice – una mano sul cuore. Credo che di Mino sia rimasta in mente a tanti la sua famosa canzone patriottica: «Italia, Italia! Di terra bella e uguale non ce n’è…». Esageratamente sentimentale? Macché, consentitemi di dire. Senza untuosa retorica, assolutamente sincera e senza inibizioni, spontanea: com’era sempre Mino.
Ricordo che una volta gli chiesi perché fosse tanto religioso, lui si immalinconì e rispose così: «Non sai quanto mi dispiace che tu non sia credente… Prega la Madonna sempre, la notte quando vai a letto, falle le tue confidenze, non nascondere nulla. Non avere paura! Devi volerle bene. Vedrete che anche nei momenti di difficoltà non ti lascerà mai solo. Come una madre, come la tua mamma». Ebbi un brivido. Lui non aveva conosciuto la mamma, ch’era morta durante il parto. Un’altra volta mi disse: «Uno dei regali più belli che la vita mi ha fatto è stata la famiglia». Della musica invece non parlava volentieri. Immagino che gli pesassero le ingiustizie della critica. E – forse – il successo strampalato, esagerato, di tanti pseudo, improvvisati musicisti. Una volta mi disse: «Oggi il ritmo domina la melodia. Ma senza melodia, la trappola è il fracasso: si precipita nel rumore, nel chiasso, escono stonature e suonacci».
Chi lo conosceva, gli voleva bene. Vi riferisco ciò che è stato detto, nei giorni della sua morte. Pippo Baudo: «Mino è stato fortunato, perché ha avuto dalla vita quello che voleva. E meritava tutto e di più». Little Tony, a lui sempre vicino: «Era un collega e un amico speciale, prezioso, da 40 anni. Ci siamo sentiti ogni settimana. Lui viveva la malattia con grande entusiasmo, mi diceva sempre che voleva fare un programma in cui io avrei fatto Dean Martin e lui Frank Sinatra. Era dolce, modesto e si comportava sempre nel modo giusto. Era una persona speciale, particolare». Memo Remigi: «Aveva tante caratteristiche, ma la migliore era sicuramente la bontà». E Adriano Celentano: «Eravamo amici, la domenica andavo a giocare a pallone da lui». Gianni Morandi: « Lo avevo sentito solo pochi giorni fa, faceva fatica a parlare, ma aveva una grande voglia di cantare. Se ne va un pezzo di storia della nostra musica». È arrivato infine il momento di confidarvi il mio rimorso. Nei primi anni di questo millennio – non ricordo di preciso – andai a Cosenza per presentare un mio libro. Era la mia città e ci tenevo molto. Reitano mi aveva assicurato la sua presenza: progettavo un divertente duetto con lui, sul Sud, la necessità di emigrare al Nord per affermarsi. Ma all’ultimo momento, un’ora prima, Mino mi mandò un messaggio per dirmi che aveva un problema e non sarebbe riuscito a partecipare. Mi irritai moltissimo, so di avere a volte un caratteraccio permaloso. Risposi acidamente. Mi chiamò e mi disse che mi avrebbe spiegato e avrei capito. Aveva una voce affaticata. Non accettai scuse, non capii. Fatto sta che non ci chiarimmo più. Penso ora che probabilmente Reitano era già malato e non voleva dirlo. Questo ricordo, quando ci penso, è molto doloroso, per me. Vorrei rimediare. Ma è impossibile.
Mino Reitano, all’anagrafe Beniamino, era nato a Fiumara il 7 dicembre 1944 ed è morto ad Agrate Brianza il 27 gennaio 2009. È ricordato per la sua straripante vitalità, per l’esuberanza delle sue esibizioni, un’icona della musica nazionalpopolare. Fu orfano della madre, morta a 27 anni nel darlo alla luce. Il padre Rocco (1917-1994) era un ferroviere, nel tempo libero suonava il clarinetto. Mino studiò per otto anni al conservatorio di Reggio Calabria: pianoforte, violino e tromba. A dieci anni il debutto, ospite della trasmissione televisiva La giostra dei motivi, presentata da Silvio Gigli. Da adolescente, impegnato nel rock insieme con i fratelli Antonio, Vincenzo (Gegè) e Franco. È autore delle musiche di quasi tutte le canzoni da lui incise e ha scritto anche brani per altri artisti, il più noto è Una ragione di più, con Franco Califano, per Ornella Vanoni. Ha avuto un unico grande amore nella sua vita: nel marzo 1977 sposò Patrizia Vernola, da cui ha avuto due figlie, Giuseppina Elena (1978) e Grazia Benedetta (1979). Nel 1961 si era trasferito in Germania, dove in gruppo con i suoi fratelli lavorò in un club in cui suonava insieme ai Beatles (ali epoca si chiamavano The Quarrymen, anche loro agli esordi). Dopo un anno e mezzo torna in Italia. Nel 1965 partecipa al Festival di Castrocaro, cantando in inglese It’s over, un pezzo di Roy Orbison: non vince, ma arriva in finale. A seguire un contratto con la Ricordi e nel 1967 debutta al Festival di Sanremo con una canzone scritta da Mogol e Lucio Battisti, Non prego per me. In estate con Quando cerco una donna va al Cantagiro. E nel 1968 arriva il successo: Avevo un cuore (che ti amava tanto) e Una chitarra, cento illusioni (500.000 copie vendute). E scrive una delle sue canzoni più significative, Il Diario di Anna Frank, portata al successo dai Camaleonti. Nel 1969 Reitano ritorna al Festival di Sanremo con Meglio una sera piangere da solo (in coppia con Claudio Villa). Mino, allora, era continuamente sui giornali, gli venivano attribuiti flirt e fidanzate. Ma, entrando nella sua famiglia, si capiva subito che cose del genere non avevano niente a che fare con la sua vita. Così quasi tutti si meravigliarono quando, nel 1977, Reitano annunciò che era fidanzato e si sarebbe sposato dopo un paio di settimane. Dal 1970 al 1975 partecipa a sei edizioni consecutive di Un disco per l’estate, che vince nel 1971 con Era il tempo delle more. Partecipa inoltre per otto anni a Canzonissima, sempre in finale o nei primi posti. Nel 1974 – siamo arrivati agli anni in cui ci conoscemmo – pubblica un album, Dedicato a Frank, in cui in copertina si fa ritrarre con Frank Sinatra. E duetta insieme con lui a Miami durante il concerto per i festeggiamenti del Capodanno. Partecipa a show televisivi e alla composizione di sigle musicali, tra cui la più nota è Sogno, dal programma Scommettiamo?, condotto da Mike Bongiorno sulla prima rete Rai nel 1976. Nel 1977 partecipa al Festivalbar con Innocente tu, Ora c’è Patrizia, dedicata alla moglie. Nel 1973 aveva scritto una canzone che partecipò e vinse lo Zecchino d’oro, La sveglia birichina: un notevole successo presso i bambini, anche per l’interpretazione di Topo Gigio, che la incide. Scrive inoltre Ciao amico, che dal 1976 al 1984 diventa la sigla del festival canoro. Nel 1988 si ripresenta a Sanremo cantando Italia, scritta all’inizio per Luciano Pavarotti da Umberto Balsamo, la canzone, che esprime l’amore di Reitano per il suo Paese. Nel 2007 gli viene diagnosticato un cancro all’intestino: affronta serenamente la malattia, grazie alla sua profonda fede cattolica. Subisce due interventi chirurgici, l’ultimo nel novembre 2008. Nonostante le cure, ad Agrate Brianza, il 27 gennaio 2009, Mino Reitano si spegne con la mano nella mano della moglie Patrizia. Pochi mesi dopo le Poste italiane emettono un francobollo a lui dedicato, terzo di una serie di tre sulla storia musicale italiana: gli altri due erano stati per Luciano Pavarotti e Nino Rota.