Emilio Isgrò è nato il 6 ottobre 1937 a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. Al Circolo dei Lettori di Torino ha presentato “Quel che resta di Dio” (Guanda). Roberto Galaverni ha scritto su La Lettura (Corriere della Sera): «L’arte del verso non si sa davvero per che verso prenderla. Veglia o sogno, controllo o abbandono, forma o contenuto, regola o eccezione? Dovunque si guardi, non esiste un punto d’appoggio privilegiato, un dirittodi precedenza, una prima pietra. Al contrario, sono sempre le due cose insieme, e dunque la loro tensione, a essere ogni volta in gioco. Pensiamo solo all’opera di Emilio Isgrò, il poeta delle celeberrime cancellature».
LE POESIE PER CANCELLARE O CONSERVARE, ABRADERE O INCIDERE
«Queste poesie – che espandono e insieme fissano il discorso poetico in direzione visiva e concettuale – sono state scritte per cancellare o per conservare, per abradere o per incidere, per condannare (il linguaggio inerte, ingiustificato, mortificato)o per salvare (la lingua nella sua piena dignità, nel suo rigoglio)? In realtà, non è possibile scegliere,
perché ciascuno dei due aspetti vive soltanto alla luce, o all’ombra, dell’altro. […] Attraverso l’interanimazione reciproca dei due aspetti, dunque, Isgrò ha fatto del proprio tema ossessivo – la cancellatura, appunto – il proprio mezzo, rendendola a tutti gli effetti memorabile». «Di questa situazione il suo nuovo libro di poesie, Quel che resta di Dio, […] sembrerebbe costituire il più esplicito dei rovesciamenti. Non la cancellazione, come nelle poesie visive, ma la traccia di una durata, di un valore e di una tenuta.Il titolo stesso della raccolta, che viene replicato in ogni sezione tematica –quel che resta volta a volta della carne, del dopoguerra, dell’arte, dell’America, dei lupi, degli Isgrò, dell’amore, dell’amore senza alberi, del Mediterraneo –, rimanda ovviamente a una delle affermazioni più celebri e discusse della storia della poesia: quel che resta lo fondano i poeti, di Friedrich Hölderlin. Al colpo di spugna delle poesie visive farebbe insomma da controcanto la fondazione messa in opera dalle poesie scritte inversi (tra il 1981, se non talvolta più addietro, e il 2019, come avvisa una nota dell’autore)».
“LA MIA PAROLA È DIVENTATA DUPLICE, COME LA VITA…”
«Eppure non è affatto così. La cassatura e la conservazione, infatti, non sono che le due facce della stessa medaglia, proprio come lo sono in Isgrò la poesia visiva e quella in versi, al punto che la distinzione tra le due non sembra avere più di tanto senso. Come ambigua o bivalente è la prima, così lo è la seconda. Nessuna palinodia, dunque. Piuttosto, lo stesso campo di tensioni poetico viene percorso ora da una parte ora dall’altra, come se si entrasse in uno stesso giardino da due ingressi collocati su lati opposti.E in ogni senso contesa appare la definizione stessa di quel che resta, che nel complesso non viene pronunciata senza il ricorso al doppio volto dell’ironia (l’arma più consueta e insieme più efficiente d’Isgrò: “La mia parola/ è diventata duplice/ come la vita”), declinata spesso e volentieri nei modi dell’indignazione, del sarcasmo, dell’amarezza, tanto più nei testi che si presumono scritti più tardi.Tra le varie voci e figure compare perfino quella di un “grillo incattivito”. L’idea portante di queste poesie è allora antifrastica, proprio come lo è quella di cancellatura. Come tale nega e afferma allo stesso tempo. […] Tra l’arte del cancellare e quella del conservare, potremmo anche dire che queste poesie rappresentano la retroguardia di un’armata di cui le cancellature costituiscono l’avanguardia. Ma a patto di riconoscere, visto che la poesia è figlia della memoria, che l’esercito è sempre lo stesso, che le due posizioni sono comunque reversibili e, di conseguenza, che una sola è la guerra che combattono».