«Quanti Oscar regalati a stelle mediocri»
Uno scotch al bar del casinò con il divo di Hollywood per eccellenza. A parlare di quella statuetta a lungo sfiorata e all’epoca mai ricevuta, di maccartismo, del successo inaspettato da scrittore. Oltre che, naturalmente, dell’amata Anne, la donna della sua vita
(di Cesare Lanza per LaVerità) Ho incontrato Kirk Douglas trentuno anni fa, nel giugno del 1989, al casinò di Campione. Alcune celebratissime star di Hollywood – un po’ avanti negli anni – erano venute in Italia e si fermarono per qualche giorno alla Villa d’Este di Cernobbio, sul lago di Como, in attesa di ricevere il premio Merit of achievement. Erano Kirk Douglas, Kim Novak, Joan Fontaine, Anthony Perkins, Jane Russell, Rod Steiger, Jean Simmons, Cliff Robertson… Un grande e intraprendente organizzatore di eventi nel mondo dello spettacolo, Pier Quinto Cariaggi, li aveva riuniti tutti per un gala, trasmesso in diretta da Rai 2, con una incursione anche in Aboccaperta di Gianfranco Funari. Un’idea baciata dal successo. I diritti tv furono venduti anche alla Cnn e a tre reti europee, tra cui quella svizzera. Un premio speciale per i veterani andò a Douglas e alla Fontaine, rispettivamente 73 e 72 anni all’epoca. L’anno prima Kirk aveva ottenuto un bel successo, forse insperato, con la sua autobiografia Il figlio dello straccivendolo, e aveva appena finito di scrivere un romanzo, Lo specchio del diavolo.
NIENTE NOMI, PERÒ…
Infine ci fu la serata a Campione. Dirigevo La Notte e convinsi il mio editore, Alberto Rusconi, a partecipare: c’era mezza Milano (quella che contava, o più spesso fingeva di farlo). Avvicinai Douglas in albergo, prima dell’evento, al bar: come si legge in molti romanzi americani, era concentrato sul suo scotch. E coccolato dal barman e dai soliti curiosi e ammiratori. Lo spinsi a parlare della sua recente vocazione a scrivere: era forse un’alternativa imprevedibile alla formidabile carriera di attore? Macché, assolutamente no («My God, no, no, no, of course no!»). Tenacemente, insistevo: avvertivo che, con un po’ di vanità, gli piaceva parlare di ciò che scriveva. Cercai di strappargli qualche battuta maliziosa, provocandolo sugli Oscar: era stato candidato 3 volte (Brama di vivere, Il bruto e la bella, Il grande campione), ma non ne aveva mai vinto uno. (Sette anni più tardi, nel 1996, sarebbe arrivato l’Oscar alla carriera: una carriera di 50 anni!). Douglas era diventato serio, rifletté e bevve un sorso, mi invitò a tenergli compagnia, ma io non ero abituato all’alcol al di fuori dei pasti. Gli strappai un borbottio di approvazione rispondendo con la fatidica battuta da poliziotto dei telefilm: «Non bevo mai quando sono in servizio». E finalmente rispose: «È vero, non mi hanno mai dato l’Oscar». Sospirò: «Molti attori, molte attrici, anche registi, avrebbero meritato il premio, ma non l’hanno avuto». E aggiunse, dopo un attimo: «La gente a volte non ha capito perché siano state premiate alcune mediocrità, tra quelli che hanno vinto». Gli chiesi di fare qualche nome: tornò a sorridere, con un gesto della mano allontanò la domanda inopportuna. Il suo sorriso mi è rimasto impresso nella mente. Cortese e professionale, affabile e coinvolgente: così aveva conquistato milioni di spettatori nel mondo, al cinema. Tornai frettolosamente ai libri e ad altri argomenti. E scoprii un uomo capace di andare controcorrente, quando era convinto delle sue idee, dei valori in cui credeva. Accennò, senza più sorridere, alla black list del maccartismo. Sapevo bene che si era battuto coraggiosamente contro il senatore Joseph McCarthy. Era stato protagonista e produttore del film di Stanley Kubrick e aveva utilizzato lo sceneggiatore Dalton Trumbo, infischiandosi del fatto che questi era stato «scomunicato», insieme con tanti altri, perché sospettato di avere simpatie e rapporti con l’ultrasinistra. Di più: era diffusa l’usanza, a Hollywood, di nascondere i reprobi, veri e presunti, sotto pseudonimi, per opporsi alla caccia alle streghe. Douglas invece si spinse a firmare la sceneggiatura col vero nome di Trumbo e così inflisse un ridimensionamento importante alle paure che McCarthy suscitava nell’ambiente del cinema. Mi colpì anche il linguaggio, allo stesso tempo intenso e sobrio, con cui parlò della moglie Anne, di cui era, con evidenza, innamoratissimo.
UNA FOTO INCREDIBILE
L’iniziativa costò mezzo miliardo di lire a Cariaggi: limousine e relax con trattamento sontuoso. Si puntava, ovviamente, sui grandi nomi, celebrità impresse nella memoria del pubblico, che spesso avevano recitato insieme: da Kirk Douglas a Joan Fontaine, e Anthony Perkins, testimoni delle idee geniali di Alfred Hitchcock, che li aveva diretti in alcuni suoi capolavori. E Jane Russell, lanciata da ragazza con l’esplicito soprannome di «il seno». Di certo gli otto divi non sembravano pensionati di lusso. In primo piano Kim Novak, braccio destro del marito veterinario, dopo essere stata scelta dalla Columbia come sex symbol in contrapposizione a Rita Hayworth e Marilyn Monroe. Jane Russell aveva lanciato una linea d’abbigliamento per taglie forti, Steiger viveva a Malibu con la terza moglie, mentre Cliff Robertson va sempre pazzo per gli aerei. E al cast hollywoodiano erano affiancati i divi europei per consegnare i premi: Virna Lisi, Ursula Andress, Anita Ekberg e Philippe Leroy. Posso aggiungere una infantile confidenza, su quell’evento al casinò di Campione, il 16 giugno 1989. Grazie a una fotografia, debbo dire sinceramente che fu Kim Novak a gratificarmi, addirittura molto più di Kirk Douglas. Andò così. Mi ero avvicinato alla bellissima attrice per scambiare con lei qualche parola. Ero in piedi, lei seduta e girata verso di me. Miracoli delle fotografie! Scoprii il giorno dopo una piacevole sorpresa: l’immagine ritraeva la Novak intenta a guardarmi con un sorriso radioso, come se tra di noi ci fosse un rapporto tenero, intimo! Invece non la conoscevo affatto, mi ero appena presentato… Vanitosamente feci stampare una ventina di copie della foto e le inviai ad amici e amiche con una sola frase: «Anche Kim non resiste al mio fascino…». Conservo ancora quella foto, ma oggi certo non la spedirei a nessuno. E passata per sempre quell’età sciocca e felice.
L’OVAZIONE DA RECORD
Qualche minuto dopo, Douglas salì sul palco e riuscì a sedurre il pubblico, col suo carisma, all’istante. Ci fu un momento meraviglioso: quando ripeté, con parole simili, ciò che mi aveva detto qualche ora prima, al bar dell’albergo. A memoria, più o meno così: «Amo l’Italia da quando ci sono stato la prima volta, 30 anni fa, per girare un film. Ma ciò che mi rende più felice è la possibilità di dirvi che 30 anni fa al mio fianco c’era mia moglie, Anne, e oggi, dopo tanti anni, mia moglie è sempre la mia stessa moglie, ancora qui con me. Anne!». E indicò la moglie, che visibilmente non si aspettava quel romantico omaggio, tra il pubblico. Una esplosione di applausi, come forse mai ne avevo sentite. Ancora adesso, quando mi capita di raccontare quell’episodio a cena o in salotto, puntualmente le donne, mogli e compagne, commentano all’unanimità: «Bravo! Così si comporta un vero uomo, innamorato». E guai se io replico che Douglas era consapevole del suo fascino e forse, da attore, stava anche un po’ recitando, a favore di chi lo ascoltava. Attore, produttore indipendente, attivista, scrittore, intellettuale raffinato, fondatore di un teatro e star di una taglia «come ormai non le fanno più», hanno scritto di lui: Kirk Douglas è morto qualche giorno fa, il 6 febbraio, dopo una lunga malattia, nella sua casa di Beverly Hills. Aveva centotré anni. Era nato a New York il 9 dicembre 1916 da una famiglia di ebrei immigrati dalla Russia (il suo nome vero era Issur Danielovitch Demsky). «La forza con cui è rimasto attivo fino a poco tempo fa (il suo show autobiografico, Before I forget, è del 2009; l’ultimo libro, una raccolta di lettere d’amore tra lui e Anne, del 2015) ci aveva probabilmente convinti che sarebbe stato eterno». Tutto è stato scritto, tutto avete letto e poco posso aggiungere: solo ciò che maggiormente mi ha colpito, con ammirazione profonda e a volte anche con divertimento.
IN PANNI ALTRUI
Una delle sue interpretazioni più avvincenti fu nella parte di Vincent Van Gogh in Brama di vivere. Ma indimenticabili anche lo schiavo ribelle Spartaco, Ulisse, il generale Patton (Is Paris burning?, 1966), Doc Holliday (Sfida all’O.K. Corral, di John Sturges, 1957). Straordinario in ogni ruolo. C’è chi sostiene che i due film più belli e veri mail siano stati Il bruto e la bella e Due settimane in un’altra città, di Vincente Minnelli, definito «uno degli autori che meglio hanno saputo usare il fascino spigoloso, complesso di Douglas, la sua fisicità felina e il suo magnetismo lievemente minaccioso». Io non saprei scegliere: forse Ulisse, per l’epica sfida con Polifemo (e anche per la presenza di Silvana Mangano). Forse Il campione per il ruolo del pugile che inseguiva la gloria (1949): i suoi collaboratori gli avevano sconsigliato di accettare la parte, e Kirk – perfezionista com’era – si allenò, nella preparazione, con un boxeur professionista. Questo era il suo metodo di lavoro. In altri film imparò a estrarre il revolver a velocità record e studiò la tromba con Harry James. Del ruolo di Van Gogh disse che lo aveva quasi portato al suicidio. «Mi sentii sull’orlo del baratro, dentro alla pelle di Van Gogh. Non solo gli assomigliavo, ma avevo la stessa età di quando lui si era ucciso». Non volle rivedere il film per molti anni. Per campare, aveva fatto un incredibile numero di lavori diversi, perfino il wrestler. Quanto alle sofferenze, fu tormentato dall’antisemitismo violento e costante, subito da lui e dalla sua famiglia. Scrisse: «Mi sono accorto di avere in me parecchia rabbia. Sono arrabbiato per cose successe moltissimi anni fa. E credo che quella rabbia abbia alimentato e reso possibile gran parte di quello che sono riuscito a diventare». Creò una sua casa di produzione: nel primo film, Orizzonti di gloria, assunse e lanciò il giovane Kubrick. Si era arruolato in Marina durante la seconda guerra mondiale. Il suo grande amore fu Anne Buydens, sposata nel 1954, ma Douglas ne aveva avuta già una prima: Diana Dill. Da quei matrimoni sono nati quattro figli. Michael, il maggiore, ha avuto un grande successo internazionale, quasi (quasi, non quanto) il suo papà. È stato lui a dare la notizia della morte di Kirk.