«Mi ribello a chi vuole apparire sexy e per questo mi vesto da pagliaccio»
È stata la più grande interprete di canzoni romane ma è ingiusto legarla a una dimensione locale e dialettale Anche nei brani in apparenza allegri trasmette l’emozione più forte: l’infelicità. E quando l’ascolto piango
(di Cesare Lanza per LaVerità) Non l’ho mai incontrata. Quindi non le ho mai parlato, non mi ha mai detto nulla. Forse non dovrebbe essere inserita in questa serie di ricordi, eppure l’ho inserita, con devozione: perché Gabriella Ferri a tu per tu non mi ha detto nulla, ma le sue canzoni mi dicono tutto, della vita. E non solo le parole, non solo la sua voce, ma ciò che caratterizza la sua personalità, l’anima, i sentimenti. La disperazione struggente, la voglia feroce – e contraddittoriamente malinconica – di allegria, la tenerezza, la generosità, la depressione, la solitudine, l’autodistruzione. E vi confido un segreto intimo, sperando che non sorridiate di me: quando l’ascolto, piango. Naturalmente ho in casa tutte le sue canzoni, non ce n’è una che non mi induca a piangere. È una strana reazione, m i sono chiesto moltissime volte perché: ne ho discusso con mia moglie, con i miei figli, con gli amici più stretti. E sono arrivato alla conclusione che è il sapore, aspro e amaro, della mia (e credo sua) filosofia di vita. La vita, questa nostra vita, non ha senso: tuttavia bisogna viverla, e cerchiamo di farlo con dignità. Ma è insensata e ci conduce a sofferenze, inquietudini, interrogativi estremi, a dubbi privi di certezze. Tutto questo canta – sempre – Gabriella Ferri: anche nelle canzoni in apparenza allegre si avverte una sottile tristezza. Ascoltate Dove sta Zazà la più folle, trascinante: per me, eccolo, nitidamente, lo sgomento di fronte all’insensatezza del vivere. E non solo per me. («Era la festa di San Gennaro, quanta folla per la via… Con Zazà, compagna mia, me ne andai a passeggia…»). Hanno scritto con intelligenza: alla popolare canzone napoletana per bande, scritta nel 1944 dal drammaturgo e paroliere Raffaele Cutolo, Gabriella aveva dato un’anima malinconica e drammatica al punto che l’autore le disse: «Dopo tanti anni ho trovato l’interprete giusta». È così. La sua voce non era di qualità tecnicamente superiore e nobile. È la personalità a renderla particolare, meravigliosa, unica. Trasmette l’emozione più forte che si possa avvertire: l’infelicità, contro cui non si può combattere.
Pensate che la mia devozione sia esagerata? Lascio allora la parola ad Alda Merini, la «mia» grande poetessa, di cui sono stato innamorato, senza mai aver avuto il coraggio di dirglielo, mai un reale legame sentimentale con lei. Ero (sono) innamorato virtualmente, e tempo fa in queste pagine l’ho raccontato senza pudore, per la forza cruda e vera dei suoi versi, per me molto simili, nella profondità del cuore, all’identità della «mia» cantante. In morte di Gabriella, Alda ha scritto: «Sei libera finalmente da quei dolori del sogno che danno trafitture e croci da tanti sordidi amori non ricambiati o forse rifiutati per sempre perché noi con queste chiome sparse per terra non facciamo che lavare i piedi di coloro che non ci accolgono. La donna artista deve volare alto ma non volevo che tu avessi una brutta compagna come la morte.» Imperdibile anche il ricordo, per me perfetto, e minuzioso, di una sua amica, l’attrice e cantante Antonella Morea: «Come diceva un titolo sul Messaggero: adesso il cuore di Roma è più povero… Lei era un pagliaccio straordinario, un pagliaccio di razza. Era la maschera con cui lei nascondeva tutto, tutto quel macello. Molto sensibile, molto ansiosa, molto severa con sé stessa, impegnativa. Donna bellissima che non aveva paura di imbruttirsi, eccentrica, feroce, antico riformista, libera, rivoluzionaria, troppo in tutto. Una grande madre, grande moglie, grande amante». Sono utili, per avvicinarsi a Gabriella, anche alcune frasi che diceva di sé e degli altri. Lei, sincera e anche autocritica: «Il mio non è un lavoro musicalmente colto. Il criterio con cui scelgo i pezzi è lo stesso che mi ha sempre guidato: l’istinto. Il contatto con la gente scatta quando mi do completamente, se non lo facessi sarei la peggior cantante del mondo!». E ancora: «Mi piace vestirmi da pagliaccio, da Ridolini, con la bombetta calata sugli occhi, la biacca al viso: non è tanto per umiliare il mio corpo, ma per una ribellione a tutte quelle che vogliono apparire snelle e sexy». Forse unica per la capacità di amare e detestare, anche odiare allo stesso tempo. Il rapporto con Roma era passionale, complesso e contraddittorio. C’era odio: «Con Roma io sono arrabbiatissima. Questa Roma che ha un fardello così pesante di storia e di cultura, con questi romani pigri, che tirano a campa’, che fanno la siesta per digerire le strippate di spaghetti, con tutte quelle macchine da scavalcare quando cammini, è stata snaturata, è diventata sciattona, sporca.» Ma c’era anche un amore intenso: «Il mio rapporto con Roma è viscerale, essenziale, inviolabile, perché è la mia città nativa. Se mi guardo allo specchio non vedo me, vedo Roma, i suoi colori, i tetti, questo incastro di vicoli, di piazze, un bellissimo mosaico. Per me Roma è un meraviglioso merletto, fatto a mano, dagli angeli». Con il legame più profondo: «Sono molto legata a Testaccio, il monte dei Cocci. Io sono nata proprio qui, a Testaccio, il quartiere romano per eccellenza, di fine 1800, inizio 1900, u n po’ felliniano…». E c’era sempre la romanità nel sangue: «Adesso non posso allontanarmi tanto da Roma, se vado via sto male, malissimo». Vera, verissima, anche cruda nell’esaltazione per la cucina: «La cucina romana, quella della mia povera mamma, era una cucina pesante, perché era il dopoguerra, c’era povertà e quindi si mangiavano le interiora, la testina d’abbacchio e queste cose che io rifiutavo. Io sono cresciuta con zuppe, con minestre, le minestre che poi il grande Aldo Fabrizi ha raccolto in un libro che mi ha dedicato. Mi piacevano molto pasta e lenticchie, pasta e fagioli, pasta e patate, pasta e ceci… Invece la pajata, la coratella, la coda alla vaccinare sono cose da muratori, da dar da mangiare a quei omoni grandi e grossi, macho romani, quelli che fanno sfoggio della loro virilità». Il secondo marito, l’imprenditore americano di origine russa Sieva Borzak (da lui l’unico figlio, Sieva junior): «Come l’ho visto ho sentito “il nonno in carozza”, come si dice a Roma. Lui invece proprio non mi si filava per niente». Pasolini: «Quando abitavo a Campo de’ Fiori, ogni volta che vedevo Pier Paolo Pasolini cenare nel ristorante sotto casa, fingevo che m fosse finito il pane e uscivo.» Le pacche: «Anna Magnani è stata l’unica persona alla quale ho permesso di darmi una pacca sulla spalla, che è una cosa che detesto.»
Provo ora a raccontarla anche attraverso i ricordi di chi l’ha scoperta, stimata e amata. Conobbe Luisa De Santis (figlia del regista Giuseppe, celebre per Riso amaro ) e ne divenne molto amica: insieme formarono un duo, con il nome di Luisa e Gabriella, che cercava di riscoprire il repertorio folk romano. I primi spettacoli erano basati sul repertorio tradizionale della canzone romanesca (come Barcarolo romano) e su canti da osteria (come La Società dei Magnaccioni) e una sera, all’Intra’s club di Milano (in quel periodo sono ospitate da Camilla Cederna), vengono notate da Walter Guertler, che le mette sotto contratto e pubblica il loro primo 45 giri, una rielaborazione del brano popolare La Società dei Magnaccioni. Nel 1964 le sue amiche hanno la prima esperienza in televisione, a La Fiera dei Sogni, presentata da Mike Bongiorno. E i magnaccioni nei giorni seguenti all’apparizione televisiva vendono un milione e settecentomila copie, diventando uno degli inni dei giovani di quegli anni. Mike presentò Luisa come «la ragazza dei quartieri alti» e Gabriella come «quella dei quartieri bassi». Roberta Hidalgo, fotografa: «Ma perché non si pensa a un monumento? Esiste il ponte che collega Testaccio e Trastevere, perché non mettere una statua di Gabriella Ferri e un’altra di Claudio Villa, che magari si guardano o ognuno guarda il proprio quartiere?». Invece, il gallerista Ferruccio Nocente «Gabriella, forse anche per questa morte, è diventata un mito».
Ammalata di depressione dal giorno della morte del padre, il figlio Sieva ha raccontato: «Si svegliava con il panico, aveva paura e prendeva pillole che la facevano sentire un po’ meglio… Amava il popolo. Era disponibile con tutti. Spesso le cene al ristorante erano interrotte da qualcuno che si avvicinava, cominciava a parlare con lei e si finiva con lei che improvvisava uno show, cantando con tutti. Alcune persone conosciute in questo modo sono diventati amici di famiglia, frequentavano casa. Mi ricordo di personaggi incredibili con cui aveva fatto amicizia, senza nessun pregiudizio, uomini che poi sono diventati donne, per esempio, in un’epoca in cui era ancora scandaloso dichiarare l’omosessualità… Era una madre attenta e aperta. Nel mondo dello spettacolo, pochi amici veri: Pier Francesco Pingitore, Pippo Franco, Leo Gullotta, Pino Strabioli, Renato Zero, Mara Venier, Patty Pravo». A Roma era nata il 18 settembre 1942. È stata la più grande cantante di canzoni romane e tuttavia è paradossale, anzi ingiusto legarla a una dimensione locale e dialettale. Ha anche strepitosi primati di vendite in Spagna, Argentina, Venezuela e Cile. Muore nel 2004, il 3 aprile, in seguito alla misteriosa caduta da una finestra della sua casa di Corchiano, in provincia di Viterbo. Gabriella aveva già tentato di togliersi la vita nel 1975, dopo la morte del padre Vittorio. Nel fatale 2004, forse il suicidio, forse un malore causato dai medicinali antidepressivi. Nessun biglietto di addio. Il giorno dei suoi funerali, a piazza Santa Maria Liberatrice, c’ero anch’io. E, nascondendomi, piangevo. Avevo in mente la bellissima Remedios, che in seguito fu la colonna sonora di Saturno contro di Ferzan Òzpetek. Nelle case vicine le finestre erano aperte: arrivava, per onorarla, la musica dei suoi dischi. Ascoltateli, vi prego.