Una seria politica industriale non può prescindere dall’unificazione infrastrutturale delle due Italie

(di Roberto Napoletano per Il Quotidiano del Sud) La nostra industria della componentistica d’auto contribuisce per il 2,4% alla locomotiva tedesca ma quel nulla apparente, il 2,4%, vale il 20% del mercato di sbocco tedesco per l’automotive italiano. Significa, quasi, la vita e la morte della gomma plastica del Sebino-Bergamasco, della concia di Arzignano, dei metalli di Brescia, della meccanica strumentale di Bergamo e della metalmeccanica di Lecco.
Siamo all’argenteria di casa del Made in Italy nella manifattura, l’eccellenza della nostra meccanica di precisione e dintorni, di cui agiografi in servizio permanente effettivo descrivono le (straordinarie) virtù e, tra il detto e il non detto, fanno capire che da quel freno o da quella gomma d’autore dipendono il futuro dell’economia italiana, il reddito dei suoi cittadini, il lavoro qualificato dei nostri giovani.
Balla nella balla, al Nord come al Sud. Perché se nel primo caso parliamo di cose vere, piccole e importanti, che nel sogno italiano diventano i colossi mondiali dell’auto tedeschi o americani, cioè una balla, nel secondo parliamo di qualcosa di così specifico che poco ha a che vedere con la meccanica legata a Fiat Chrysler Automobile, all’indotto e a un tessuto imprenditoriale extra più logorato che sfilacciato. Siamo, dunque, alla balla assoluta.
Abbiamo rispetto del talento creativo bresciano-bergamasco che ben conosciamo, il senso profondo di un modo di fare impresa dove ricerca, creatività e organizzazione provano a stare insieme con taglie aziendali inadeguate alla competizione globale ma capaci di farsi rispettare e a loro modo intrecciate con più imprese e più territori che ne fanno un unicum mondiale della manifattura.
Questo unicum, di cui è giusto essere orgogliosi, può sparire dalla sera alla mattina o lentamente declinare a seconda se il calo del 4% di produzione della Germania nei primi nove mesi dell’anno si accentua pericolosamente o si stabilizza. Non auspichiamo nessuna delle due ipotesi, ma un Paese senza grandi imprese, come è il nostro, è ovvio che soffre a coprire quel buco di produzione tedesca a cui siamo appesi come una macchina lo è al suo bottone di accensione. Dipendiamo dal male oscuro tedesco.
Basta prendersi in giro: un disegno serio di politica industriale non può prescindere da player domestici internazionali e dall’unificazione infrastrutturale delle due Italie. Questo è il male oscuro italiano e qui si misura il conto di un saccheggio truffaldino di risorse pubbliche di sviluppo che ha messo fuori mercato 20 milioni di persone e ha tolto al nostro capitalismo privato del Nord il principale mercato di consumo dei loro prodotti.
Maroni ne è consapevole e la sua storia, su questo tema, dice molto. Per questo, abbiamo parlato di Manifesto per l’Italia, dal Sud al Nord, perché se non si torna a investire nel Mezzogiorno l’Italia tutta verrà spazzata via dal novero dei Paesi industrializzati. Con buona pace dell’agiografo di turno.