Gli effetti occupazionali delle nuove tecnologie generano forti preoccupazioni nel mondo del lavoro: timori esasperati da una diffusa retorica allarmista. Più raramente sono oggetto di analisi fondate sulla conoscenza. Muove da qui una ricerca del Mit di Boston, che va in controtendenza rispetto alle posizioni più tecno-fobiche così come a quelle più tecno-entusiaste. Lo studio (The Work of the Future. Shaping Technology and Institutions) è il frutto di una lunga ricerca che ha coinvolto l’accademia e l’imprenditoria americane. Ed è importante non solo per l’autorevolezza di chi l’ha realizzato ma soprattutto per ciò che manda a dire ai decisori pubblici. Le raccomandazioni principali sono tre e ruotano intorno alla centralità del lavoro anche nei nuovi contesti tecnologici dell’intelligenza artificiale e della robotica avanzata.
La prima è quella di spostare gli incentivi da chi investe in tecnologia a chi destina risorse al capitale umano, cioè alla formazione. La seconda, politicamente più rilevante, è accrescere il ruolo dei lavoratori nelle decisioni d’impresa, guardando alle esperienze cogestionali del Nord Europa. La terza suggerisce d’indirizzare l’innovazione verso il rafforzamento professionale e culturale dei lavoratori. In breve, si consiglia di usare le tecnologie per affiancare le persone e non per prendere il loro posto.
La posizione del Mit fa discutere perché contraddice gli slogan tecno-centrici più in voga. Ma soprattutto dimostra che per aumentare la produttività dei sistemi economici, senza dimenticare l’inclusione sociale, bisogna partire dall’investimento sui protagonisti, cioè puntare sul rilancio del lavoro. Che poi è quello che stanno facendo, anche in Italia, le imprese più competitive: purtroppo non sempre supportate da coerenti politiche industriali dei governi.
Edoardo Segantini, Corriere.it