È andata come era previsto che andasse: Boris Johnson è il nuovo leader dei conservatori britannici e domani si insedierà a Downing Street come primo ministro al posto di Theresa May. È stato eletto dai 160 mila iscritti al partito con 92 mila voti, il 66 per cento, contro i 46 mila andati al suo sfidante, il ministro degli Esteri Jeremy Hunt.
Una vittoria frutto della sua personalità carismatica ma soprattutto della sua linea senza compromessi sulla Brexit, che lui ha giurato di voler portare a compimento entro il 31 ottobre a qualunque costo, «vivi o morti». Perché la base dei conservatori è stufa degli indugi e vuole l’uscita dalla Ue al più presto: e perché l’inconcludenza della May ha portato al successo il Brexit Party di Nigel Farage, a spese del partito di governo. I conservatori si sono affidati a Johnson perché vedono in lui l’unico in grado di riassorbire lo «scisma» faragista e allo stesso tempo sconfiggere il Labour di Jeremy Corbyn, percepito come la vera, grande minaccia. Non è un caso che proprio della necessità di sconfiggere i laburisti Johnson abbia parlato nel suo primo discorso da leader Tory, ponendo — insieme a questa — altre due priorità al suo mandato: quella di portare a termine la Brexit, ovviamente, e quella di unire (ed energizzare) il Paese.
Ma Boris eredita dalla premier uscente un calice avvelenato. La maggioranza su cui può contare in Parlamento è esigua, appena tre deputati, e i (pochi) conservatori filo-europei sono già sul piede di guerra per bloccare una Brexit catastrofica senza accordi; e dall’altro lato l’Europa non sembra intenzionata a fare alcuna concessione. I margini di manovra sono dunque molto stretti: per cui è probabile che Boris decida di andare presto a elezioni anticipate per ottenere un mandato popolare chiaro alla «sua» Brexit. Quale volto questa avrà, cominceremo a scoprirlo domani pomeriggio, quando Johnson pronuncerà il suo primo discorso sulla soglia di Downing Street.
Luigi Ippolito, Corriere.it