Ormai è diventata l’arma preferita da Donald Trump per risolvere i problemi. Il presidente Usa ha usato i dazi per colpire la Cina, accusata di furto di proprietà intellettuale ai danni delle aziende statunitensi. Poi ancora ha minacciato la Francia, per convincerla a non imporre una digital tax che costringerebbe i big del tech (la maggior parte americane) a pagare le tasse per i servizi digitali erogati ai consumatori francesi. E infine, ha usato questo strumento anche contro gli stati membri dell’Ue, per risolvere il contenzioso aperto con Bruxelles sui sussidi ad Airbus. Eppure, si tratta di una misura che ha enormi conseguenze economiche, non solo per chi finisce nel mirino del provvedimento, ma anche per chi la usa.
La United States Trade representative ha recentemente deciso di aggiungere altri prodotti europei alla lista dei beni da colpire con nuove tariffe: si tratta dell’ultimo atto di uno scontro che dura ormai da 14 anni tra Stati Uniti ed Ue, caratterizzato da accuse reciproche di aiuti economici alle rispettive industrie aerospaziali, vale a dire Boeing e Airbus.
Secondo Washington, i contributi finanziari erogati a favore del costruttore europeo avevano comportato una perdita di profitti e quote di mercato per la società aerospaziale di Chicago: così il rappresentante del Commercio Robert Lighthizer aveva individuato lo scorso aprile una lista di beni europei da colpire con i dazi per spingere Bruxelles a “eliminare gli aiuti”. La commissione europea aveva reagito prontamente alle accuse americane, sottolineando le violazioni statunitensi al commercio internazionale per aver favorito Boeing con dei sussidi che alteravano il regolare andamento del mercato. E quindi aveva brandito l’arma speculare dei dazi sui prodotti Usa per i danni subiti da Airbus.
Ora che il gioco si fa duro, Trump ha deciso di rincarare la dose aggiungendo nuovi beni alla lista di dazi redatta dall’Ustr lo scorso aprile. E di mezzo ci va il nostro Made in Italy, perché le esportazioni dei nostri Dop verso gli Stati Uniti sono a rischio. “Gli Stati Uniti rappresentano il secondo mercato estero, dopo la Francia, per il Parmigiano Reggiano con oltre 10 mila tonnellate vendute ogni anno”, spiega a Business Insider Italia Nicola Bertinelli, presidente del Consorzio Parmigiano Reggiano. “Le forme di formaggio sono già colpite da un dazio di 2,15 dollari al Kg. L’aumento di questa tassa fino al 100 per cento del valore originale potrebbe determinare una drastica riduzione della domanda e quindi delle importazioni”. Una preoccupazione condivisa da Salvatore Palitta, presidente del Consorzio Pecorino Romano, che parla di un “possibile tracollo per l’economia regionale sarda” qualora i dazi imposti al pecorino dovessero raggiungere il 100 per cento del valore: “Il prezzo delle forme salirebbe eccessivamente e queste non troverebbero più spazio sul mercato Usa. Rischierebbero di essere rimpiazzate da alternative meno care, realizzate localmente” ci spiega Palitta.
In entrambi i casi, a essere colpita non sarebbe solo la filiera italiana, ma anche gli operatori americani, che non venderebbero più i Dop nei negozi, i consumatori, che non li troverebbero, e infine anche lo Stato, che non potrebbe più fare cassa grazie alle tasse imposte sulla loro importazione. Questo perché il crollo della domanda ridurrebbe le quantità di merce importate, facendo abbassare anche il potenziale gettito per le casse dell’erario.
Le conseguenze dai dazi su Parmigiano Reggiano e Pecorino romano
L’imposizione di pesanti tributi punirebbe tutti secondo i presidenti dei due Consorzi. Gli scenari che hanno elaborato le due organizzazioni danno una misura del danno per operatori, consumatori e bilancio pubblico. Basta fare qualche calcolo per comprendere meglio gli interessi in gioco.
Oggi il parmigiano reggiano che approda sull’altra sponda dell’Atlantico spunta un prezzo di 15 dollari al kg: il dazio imposto è di 2,15 dollari al kg. Nel 2018, sono state vendute 10 mila tonnellate di formaggio (+2,2 per cento rispetto al 2017): di conseguenza, l’incasso dello stato per le tariffe è stato di circa 22 milioni di dollari. Al contempo, le imprese americane hanno generato un valore aggiunto di circa 200 milioni di dollari: questo perché il prodotto costa loro 20 dollari al kg – tra importazione, logistica e altre spese – e lo rivendono a 40 dollari al kg, ottenendo un guadagno di 20 dollari al Kg (moltiplicato per 10 milioni di kg annuali).
Se i dazi salissero al 100 per cento del valore, e quindi a 15 dollari al kg, l’impatto sulla domanda potrebbe essere disastroso. “Abbiamo chiesto agli operatori americani e, in base ai loro studi, le vendite crollerebbero vertiginosamente. Questo perché con un tale aggravio fiscale, le aziende Usa venderebbero a 60 dollari al kg (non più a 40): così si preserverebbe solo il 10 o 20 per cento della domanda attuale”, precisa Nicola Bertinelli. Come conseguenza, gli esportatori italiani perderebbero l’80 o 90 per cento del mercato; il governo statunitense incasserebbe meno imposte, visto che le importazioni passerebbero da 10 milioni di kg a uno soltanto, e quindi le entrate sarebbero pari a 15 milioni di dollari. E infine, gli operatori americani registrerebbero una perdita di valore aggiunto pari a 200 milioni di dollari.
Certo, si potrebbe anche configurare la situazione in cui, nonostante il pesante dazio, il volume delle esportazioni, e quindi degli acquisti domestici, rimanga costante: tuttavia, in questa eventualità, a pagare di più sarebbero i consumatori, che dovrebbero comprare le forme a 60 dollari al kg (e non più a 40). In altre parole, il costo della tassa verrebbe scaricato sulle loro spalle: “Un’operazione che comporterebbe 200 milioni di ulteriori oneri, considerando i 10 milioni di kg venduti annualmente”, sottolinea il presidente del Consorzio del Parmigiano Reggiano.
Rischi simili corre il pecorino Romano, venduto a 6,56 – 6,80 euro al kg. “Tariffe fino a un massimo del 100 per cento del valore del prodotto potrebbero minacciare la sua presenza nel mercato statunitense”, commenta Salvatore Palitta: il prezzo troppo alto costringerebbe molti consumatori a rinunciare a questa specialità “che ha avuto un consumo costante negli anni generando anche valore in termini fiscali per lo stato – aggiunge il presidente del Consorzio -, spingendoli a rivolgersi a prodotti alternativi: l’effetto quasi immediato sarebbe il contraccolpo negativo per tutta la filiera sarda, visto che le produzioni casearie non troverebbero più uno sbocco, e quindi una remunerazione, per il pecorino romano esportato in Nord America”.
Il mercato statunitense è infatti una importante destinazione estera di questo dop italiano: nel 2018 ne abbiamo esportato circa 9 mila tonnellate, per un valore di quasi 65 milioni di euro. Ma se il prezzo dovesse salire eccessivamente, i distributori locali potrebbero essere invogliati a sostituirli con prodotti meno cari. Come aveva spiegati a Business Insider Italia Massimo Forino, direttore di Assolatte, quando il prezzo del pecorino romano supera una certa soglia, gli acquirenti negli Stati Uniti si spostano verso beni di imitazione o quelli locali, come il romano cheese, formaggio di latte di mucca realizzato in centro e sud America impiegato per fare piatti pronti. La riduzione delle importazioni di pecorino avrebbe ripercussioni non solo sull’industria nazionale italiana ma anche sul gettito che il fisco Usa riesce a prelevare dal commercio di questi formaggi.
I due consorzi stanno lavorando per presentare tutta la documentazione necessaria ed esporranno le loro valutazioni, facendo valere le loro ragioni, in un’audizione prevista per il 5 agosto di fronte alle autorità americane. Poi la decisione finale sulla validità dello strumento dei dazi scelto dall’agenzia dell’Ustr spetterà al Wto, che dovrebbe risolvere la questione entro ottobre.
Marco Cimminella, Business Insider Italia