Può succedere che in banca non autorizzino il credito alla tua azienda. Nonostante abbia dimostrato di avere tutto in regola, non hai forti esposizioni, non hai debiti con il Fisco, hai i bilanci a posto. E allora perché non sei ritenuto affidabile?
Perché, per determinare l’indice di affidabilità creditizia la società specializzata nella gestione del credito aziendale non si è accontentata di analizzare i dati ufficiali, come i bilanci depositati in Camera di Commercio, ma ha avuto la bella idea di sfruttare anche i famigerati Alternative Data: post sui social, commenti, articoli su blog in cui non solo è nominata la tua azienda, ma che citano anche proprietari e dirigenti.
Ciò che viene pubblicato in Rete, insomma, diventa sempre più determinante non solo per accedere a un credito ma, per esempio, anche per concludere una acquisizione o una fusione. Secondo l’Edelman Trust Barometer, peraltro, il 64% delle persone si fida di ciò che trova su Google, spesso senza verificare l’affidabilità delle informazioni.
Ed esistono ricerche specifiche che segnalano un rapporto diretto tra una recensione negativa e un calo del business per un’attività locale.
Un link può mandarti in rovina
“Negli Stati Uniti basta un link a un articolo per cambiare lo score, e quindi la valutazione di un’azienda e, complice anche la lingua, hai voglia di sostenere che, magari, l’articolo non dice niente di così trascendentale, che è roba vecchia, o che riguarda il passato di un manager che ormai non c’è più”.
Chi parla è Sveva Antonini, avvocato bolognese e fondatrice di Tutela Digitale insieme a Gabriele Gallassi. Sveva ha un passato come consulente nella gestione delle diatribe legate alla tutela dei diritti musicali e probabilmente è proprio in quella occasione che rafforza il suo legame con Gabriele, laureato in Giurisprudenza anche lui ma noto ai più per essere stato uno dei due chitarristi dei Lunapop.
Tutela Digitale è una società di consulenza specializzata nella tutela della reputazione online per professionisti e privati. Formata da una decina di persone, coadiuvate da un gruppo di consulenti, la società bolognese si avvale della piattaforma software della spagnola Red Points di cui è partner italiano.
Gli aneddoti raccontati da Sveva e Gabriele sono numerosi: si va dal bambino che si è rivolto a loro per eliminare le sue foto che la mamma postava sui social a chi pretendeva di veder cancellata, almeno sul web, la propria fedina penale non proprio illibata.
“Ma la casistica è immensa – prosegue Antonini – pensiamo al cyberbullismo, all’estorsione via web, alla diffamazione che ha portato a casi di cronaca ben noti”.
Il diritto all’oblio (finalmente) funziona
Insomma, per i motivi elencati all’inizio, la tutela della reputazione digitale sta diventando un affare molto proficuo che va ben oltre il semplice diritto all’oblio.
“Abbiamo supportato circa 300 aziende in un paio d’anni – prosegue Gallassi – e abbiamo un tasso di successo dell’85%. In un anno, inoltre, abbiamo ottenuto la rimozione di 2.500 link appellandoci al Diritto all’Oblio”.
Il tutto con un lavoro che prevede diverse competenze e molta “manualità”, dato che bot e spider da soli non sono sufficienti a risolvere il problema. “Bisogna essere specialisti di diritto digitale ma anche profondi conoscitori di marketing – segnala Gallassi”. Già, perché si parte da una analisi profonda di ciò che si trova nelle pagine di Google (la Serp) a partire da una chiave di ricerca, per esempio un nome e cognome.
Ma è semplice eliminare i link diffamatori?
“La piattaforma software che utilizziamo – spiega Antonini – integra un catalogo di migliaia di siti, una volta individuate le pagine da eliminare si contattano i responsabili e si chiede di procedere. Va detto che ora esiste una minima normativa di riferimento e una procedura precisa e che Google si sta impegnando in prima a persona a far valere questo diritto. Ma compilare il modulo per il Diritto all’Oblio può non essere sufficiente”.
Infatti, i contenuti si viralizzano, ovvero rimbalzano di sito in sito, di social in social e proliferano in circuiti chiusi, come i gruppi di Whatsapp, dove è impossibile agire. “Ma è anche vero che, una volta individuate ed eliminate le fonti primarie – prosegue Antonini – spesso basta aspettare perché l’effetto virale scemi”.
Una strategia Seo e una app
Capita, poi, che i contenuti non siano diffamatori ma corrispondano a verità.
“Nel caso in cui tra i primi risultati di una ricerca compaiano articoli di fonti autorevoli che non hanno fatto altro che riportare la verità – ci dice l’avvocato – allora la strategia è costruire nuovi contenuti che, grazie a precise tecniche Seo, scalzino dalla Serp i contenuti che si vorrebbero lasciar cadere nel dimenticatoio”.
Dopo la messa a punto di una semplice web app, il team di Tutela Digitale ha deciso di rilanciare con una vera e propria app, LinKiller, disponibile per iOS e Android, che permetterà di chiedere istantaneamente la rimozione di un link dalla ricerca di Google previa registrazione al servizio. Se il caso si rivela più complesso, poi, allora il team contatterà l’utente e concorderà uno specifico progetto a pagamento il cui costo varia a seconda della casistica, ma il pagamento viene richiesto solo a lavoro concluso.
Non solo LinKiller
Il terreno delle aziende di consulenza specializzate nella rimozione dei contenuti indesiderati dal web è particolarmente fertile. Oltre a Red Points e a Tutela Digitale, per esempio, c’è Ealixir che si definisce “world leader” del settore, ma è certo che siamo ancora all’inizio di un mercato che prevede scintille nel 2019.
Valerio Mariani, Business Insider Italia