Il mito ha imprigionato il suo canto davvero libero.
Vent’anni la morte del cantautore più grande e scostante: «Ho imparato da Bob Dylan a dire quello che mi pare». Il divorzio da Mogol, che denunciò la vedova
(di Cesare Lanza per LaVerità) «Seguir con gli occhi un airone sopra il fiume / e poi ritrovarsi a volare / e sdraiarsi felice sopra l’erba / ad ascoltare un sottile dispiacere. / E di notte passare con lo sguardo la collina / per scoprire dove il sole va a dormire…»
Emozioni! È la canzone che più amo di Lucio Battisti, conosciuta e apprezzata, e ancor oggi ricordata, da milioni di italiani. Tra i suoi fans, ne cito uno, popolarissimo, a memoria: «Battisti era uno dei cantanti più ascoltati nei ritiri delle squadre di calcio. Emozioni, una delle mie canzoni preferite», ha detto Gianni Rivera.
Contravvengo all’impegno che mi ero dato, all’inizio di questa carrellata di ricordi: scrivere esclusivamente dei personaggi di una volta che ho conosciuto direttamente, raccontando i miei incontri. Non ho mai incontrato Battisti. Ne scrivo perché ho amato, e amo, tantissimo la sua musica, la sua poesia: sono scolpite nella mia vita. E perché almeno cinque volte ho cercato di incontrarlo e di intervistarlo, senza successo: i tentativi segnano i capitoli principali della mia carriera nel giornalismo (e del suo progressivo, immenso successo). La prima volta quando ero un debuttante al Corriere dello sport, e noi giovani già lo chiamavamo per nome confidenzialmente, come se fosse uno di noi, Lucio. E quasi ci riuscii! Aveva accettato, poi senza spiegazioni non venne all’appuntamento. Lucio era nato un anno dopo di me (e un giorno dopo, questa è una semplice curiosità, Lucio Dalla): il 5 marzo 1943, a Poggio Bustone in provincia di Rieti. Poi provai con tenacia a intervistarlo quando ero al Secolo XIX a Genova, poi a Milano, dove lui viveva, al Corriere d’Informazione, poi quando fondai un settimanale, Contro, che dava ampi spazi alla musica e ai giovani (all’epoca l’idolo era Renato Zero): la mia era diventata una sorta di fissazione! Infine, negli anni novanta, quando lavoravo in televisione e Battisti però era ormai inavvicinabile.
Perché, come alcuni hanno scritto, si comportava, in modo distante, scostante? Per me, non solo perché temeva e, soprattutto, disprezzava i giornalisti, ma anche per una scelta artistica, esistenziale. Lo ha spiegato lui stesso, nelle sue rare esternazioni: «Tutto mi spinge verso una totale ridefinizione della mia attività. In breve tempo ho conseguito un successo di pubblico ragguardevole. Per continuare ho bisogno di nuove mete artistiche, di nuovi stimoli professionali: devo distruggere l’immagine squallida e consumistica che mi hanno cucito addosso. Non parlerò mai più, perché un artista deve comunicare solo per mezzo del suo lavoro. L’artista non esiste. Esiste la sua arte». A un certo punto rifiutò ingaggi economicamente favolosi e non fece più concerti: secondo una leggenda, presumo, rifiutò due miliardi di lire offerti da Gianni Agnelli, che lo voleva ascoltare a Torino, in una serata speciale. Perché? «Perché, se no, non vivi. E io intendo guadagnare, divertirmi, intendo avere successo, ma intendo anche vivere!… Chi me lo dà il tempo, dalla mattina al pomeriggio, quando sto con la chitarra a suonare? Le canzoni mica scaturiscono così… Voglio conservare la mia autonomia, la mia personalità per quanto possibile, e una delle cose che ti spersonalizzano al massimo sono le serate». E ancora: «Non faccio tournée né spettacoli perché mi sembra di vendermi, di espormi in vetrina: io voglio che il pubblico compri il disco per le qualità musicali e non per l’eventuale fascino del personaggio». Perfino giustificandosi per la schiettezza: «Da Bob Dylan ho imparato a dire quello che mi pare».
Lucio era nato in una famiglia piccolo borghese: il papà, Alfiero Battisti, era impiegato al dazio. In un’intervista nel 2006 confessò di aver pensato di chiedere la cartella clinica del celebre figlio, morto otto anni prima, «per avere piena chiarezza su come sono andate le cose». In un’altra occasione raccontò di non avere alcun rapporto con il nipote e la nuora. La mamma, Dea, casalinga, e la sorella Albarita morirono entrambe di tumore. Lucio aveva avuto un fratellino, primogenito, chiamato col suo stesso nome, morto a soli due anni. Nel 1950 la famiglia si trasferì a Roma. Tutti ricordano il futuro grande cantante come un bambino silenzioso, molto timido. Fu uno studente di pessimo rendimento, con grande irritazione del padre, in un istituto tecnico. Lucio ebbe in regalo una chitarra dalla mamma e si avvicinò alla musica insieme con i ragazzi del suo condominio, che ascoltavano i successi di rock and roll arrivati in Italia. A insegnargli a suonare fu un elettricista. Il padre, infuriato, lo minacciò di non firmare l’esenzione dalla leva militare (Lucio ne aveva diritto in quanto figlio di un invalido di guerra) se non si fosse diplomato. E arrivò addirittura a sfasciargli la chitarra in testa per i cattivi risultati a scuola.
C’è una data precisa per la svolta fondamentale della sua carriera: il 14 febbraio 1965, un appuntamento con Giulio Rapetti. Ovvero, in arte, Mogol. Che ha raccontato di non essere rimasto particolarmente impressionato dalle canzoni che Battisti gli aveva proposto, ma di aver deciso di collaborare con lui per la sua umiltà nell’ammettere i propri limiti e la voglia di migliorarsi. E quasi subito fu proprio Mogol a insistere con Battisti, scettico sulle proprie doti vocali, perché cantasse in prima persona le sue canzoni, anziché affidarle ad altri artisti. E Battisti, nel febbraio del 1966, debuttò come solista «Adesso sì», composto da Sergio Endrigo. E poi…
«Seduto in quel caffè / io non pensavo a te… / Guardavo il mondo che / girava intorno a me… / Poi d’improvviso lei sorrise / e ancora prima di capire / mi trovai sottobraccio a lei / stretto come se non ci fosse che lei…»
Era il 1967: Mogol e Battisti, gli autori del brano 29 settembre portato a un successo pazzesco dall’Equipe 84. Trasmesso ossessivamente nel programma radiofonico Bandiera gialla, si classificò al primo posto nella hit parade. Partecipa al Festival di Sanremo per due anni consecutivi, ma le canzoni sono affidate ali interpretazione di Mino Reitano e Johnny Dorelli. E poi…
«Ti stai sbagliando chi hai visto non è / Non è Francesca / Lei è sempre a casa che aspetta me / Non è Francesca / Se c’era un uomo po i/ No, non può essere lei…
Una canzone geniale, rimasta nel cuore di tutti gli innamorati, che avvertono inevitabilmente, a torto o ragione, le insidie della gelosia. La partecipazione a Sanremo aumentò di molto la sua popolarità. Alla fine degli anni 60, infatti, le sue canzoni diventano veri e popolari tormentoni e Lucio è invitato in vari programmi televisivi. Il 28 marzo 1969 pubblica un altro grande successo, Acqua azzurra, acqua chiara e partecipa per la prima volta ad una trasmissione televisiva: Speciale per voi, di Renzo Arbore.
Nel 1979, dopo 15 anni di sodalizio artistico, Lucio e Mogol decidono di separarsi. Battisti tempo dopo commenterà: «Siamo due persone di questo tempo, che dopo tanti anni di lavoro assieme… improvvisamente, per divergenze di interessi, si sono messe ognuno su una sua rotaia, su una sua strada, per cui da quattro o cinque anni ci vediamo al massimo un mese all’anno. Due persone che stanno diventando completamente diverse».
Battisti continuò la sua strada con Velezia (pseudonimo di Grazia Letizia Veronese, sua futura moglie) che gli scrive i testi, poi con Pasquale Panella. Mogol confidò: «All’epoca il musicista prendeva l’8% e il paroliere il 4%, la Siae voleva così. Battisti quando ha iniziato era un dilettante, eppure io non ho mai voluto fargli firmare nessun documento sotterraneo. Sempre il 4% a me, l’8% a lui. Quando abbiamo venduto i diritti dei brani ho chiesto alla pari 6% a lui e 6% a me, altrimenti non avrei più scritto». E così fu. I testi di Panella sono molto diversi: di difficile comprensione, densi di giochi di parole e doppi sensi.
E il momento di dare spazio alle critiche, spesso aspre. Come: «Bravo Battisti, ma buona parte del merito è di Mogol, che gli fa dei testi cuciti su misura». Oppure: «Originale il Battisti del secondo periodo, ma il merito è di Panella, che gli scrive testi surreali”. Alfonso Madeo sul Messaggero lo definì «Impacciato». Natalia Aspesi stroncò la sua voce: «Chiodi che gli stridono in gola». Paolo Panelli ironizzò sulla sua capigliatura «anticonformista e selvaggia», equiparandolo a Pierino Porcospino e ad Attila, re degli Unni. Ferruccio D’Apice (fotografo di Battisti): «Lucio era freddo, scostante e a volte anche indisponente. Spesso finiva per apparire presuntuoso, e comunque non era mai considerato troppo simpatico». Riz Ortolani: «Battisti scopiazza la sua musica». Augusto Martelli: «Battisti è un dilettante spaventoso, un pallone gonfiato». Aldo Buonocore: «La sua voce è una lagna, uno strazio». Però Mogol lo conosceva meglio di tutti: «Grandissimo musicista, compositore e interprete». E Ennio Morricone: «È stato un innovatore. Con lui non si ebbero più tonalità prese a caso, ma corrette e coerenti con l’interpretazione e capaci di dargli un senso vero». Condivido l’opinione di Carlo Verdone: «Sapeva scrivere le melodie, come i Beatles ed Elton John. Chi in Italia è riuscito ad imporre venti canzoni? Solo lui».
Grazia Letizia Veronese, paroliera e compositrice, nata a Limbiate (Monza), gli ha dato un figlio, Luca Filippo Carlo, nel 1973. Tre anni dopo, Battisti, che aveva sempre dichiarato di credere nella famiglia, ma non nel matrimonio, decide di sposarla. Lucio lasciò una enorme eredità. E Mogol decise di fare causa alla vedova, chiedendo un risarcimento di 8 milioni di euro per aver ostacolato lo sfruttamento del repertorio dell’artista di cui lui era stato coautore. A seguire, diffamazioni e denunce. Infine 11 grande paroliere vinse la causa e ottenne 2,6 milioni di euro. C’era chi aveva descritto la Veronese come una Yoko Ono «desiderosa di creare il vuoto intorno al marito e di volersi sostituire al paroliere Mogol e di scrivere lei stessa i testi delle canzoni». Sorvolo, disgustato, sulle accuse, a partire dal 1972, a Battisti, in realtà estraneo alla politica, di essere un neofascista, e di aver finanziato movimenti di estrema destra (tra l’altro era proverbiale la sua parsimonia). Infine: davvero era avaro? Chi lo ha conosciuto bene dice che per vivere gli bastava quel che aveva: un appartamentino semivuoto, qualche capo di vestiario comodo e pratico (niente cravatte e una sola giacca blu).
La morte… Tra il 29 e il 30 agosto 1998 si diffuse la notizia del ricovero di Battisti in una clinica milanese. Undici giorni di ricovero, nessun bollettino medico. Le sue condizioni si aggravano, l’8 settembre viene trasferito nel reparto di terapia intensiva dell’Ospedale San Paolo. Muore la mattina dopo. Le cause della morte mai comunicate: secondo voci, per un linfoma maligno che aveva colpito il fegato; secondo altri per glomerulonefrite. Ai funerali, in forma strettamente privata a Molteno, furono ammesse appena venti persone, tra le quali Mogol. Vent’anni dopo, vorrei ricordarlo con un’altra sua meravigliosa, poetica canzone.
«Il carretto passava e quell’uomo gridava “gelati” / al 21 del mese i nostri soldi erano già finiti / io pensavo a mia madre e rivedevo i suoi vestiti/ il più bello era nero coi fiori non ancora appassiti/ All’uscita di scuola i ragazzi vendevano i libri / io restavo a guardarli cercando il coraggio per imitarli / poi sconfitto tornavo a giocar con la mente i suoi tarli…»