In una scuola elementare di Gela (Caltanissetta) la recita natalizia è finita in una scazzottata tipo saloon di Dodge City.
È successo che un paio di genitori si sono contesi la titolarità di un posto in prima fila, e siccome non sono riusciti a venirne a capo con la logica hanno provato con le mani. Poi uno è accorso in aiuto dell’altro, un altro di quell’altro, e nel giro di venti secondi un bel mucchio di padri e madri se le stavano suonando come portuali, fra lanci di sedie e banchi rovesciati. Finché è arrivata la polizia e la recita è stata sospesa. Era scontato che prima o poi andasse così. Lo sa chiunque, in questi giorni, è costretto a dividersi fra un presepe vivente e un saggio di flauto dolce, organizzati con mediazioni stile Onu perché i genitori da mesi conducono spietate azioni di lobbying per guadagnare al figlio il ruolo di primo strumentista o di San Giuseppe. L’esito viene commentato con toni progressivi in chat ufficiali, sotto-chat riservate, sotto-sotto-chat carbonare, in cui si lanciano accuse di favoritismi, abusi d’ufficio, corruzione. Si dichiara la maestra fascista, la scuola specchio del marciume del Paese, così si arriva digrignanti al giorno della messa in scena, si arriva soprattutto armati di telecamerine, macchine fotografiche con teleobiettivi di tre metri, il più sgangherato ha un iPhone 4000, e lì ci si saluta sorridendo mentre a spallate ci si ruba la postazione, ci si arrampica sui tavoli, si scivola furtivamente sotto la cattedra, si incitano i piccini a farglielo vedere a questi chi è il migliore. Perché, se non ci pensa la scuola, ai nostri figli glielo dobbiamo insegnare noi come si sta al mondo.
Mattia Feltri , La Stampa