C’erano una volta / Federico Fellini

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Il gigante che si faceva dominare dall’artista

Una mente complessa che aveva anche difetti non giustificabili. Ruppe storiche amicizie per inezie. Ebbe tanti amori ma non poteva vivere senza la sua Giulietta. L’ho conosciuto a una fermata di taxi e mi sono fatto scappare l’opportunità di intervistarlo

(di Cesare Lanza per LaVerità) Forse non avrei mai scritto un ritratto di Federico Fellini (non l’ho conosciuto bene), se non mi fosse successo un curioso episodio, qualche giorno fa. Ho preso un taxi nel centro di Roma e il tassista alla guida mi racconta che Fellini prendeva spesso il taxi, sedendosi davanti. Saliva a Piazza del Popolo e si faceva lasciare nelle vicinanze di via Po. Mi si è acceso un lampo emozionante, nella memoria, neanche fossi in un libro di Marcel Proust o in un film di Pupi Avati. Primi anni Sessanta, piazza del Popolo: aspettavo con impazienza un taxi, ero un pischello del Corriere dello Sport, dovevo correre a intervistare non ricordo più quale calciatore o allenatore… Accanto a me, lui: Fellini. Mi presentai balbettando il mio nome. «Maestro…». Mi guardò con curiosità e mi rispose con quella sua vocina di adolescente non ancora giunto alla pubertà: «Corriere dello Sport ? Conosco il suo direttore. Antonio Ghirelli… Me lo saluti!». Intanto era arrivato un taxi e io gli lasciai la precedenza, lui accettò e mi ringraziò con un cenno regale. Allora mormorai il mio desiderio di fargli un’intervista e lui dal finestrino mi salutò così, con una risatina: «Perché no? Sul calcio? Lei certo sa meglio di me che le interviste sono finzioni…». E sparì. Avevo conosciuto Fellini! Mi ero presentato a Fellini! Avevo chiesto un’intervista a Fellini! Mamma mia, com’ero emozionato… Più tardi, in redazione, i colleghi più adulti ed esperti mi riportarono alla realtà: «È un’occasione perduta. Dovevi strappargli subito un appuntamento preciso». Un collega bonario: «Ti valga come lezione». Un collega beffardo: «Dovevi prenderlo per la giacca e non mollarlo… Trascinarlo da Rosati, offrirgli un aperitivo!». La consapevolezza, oggi, è questa: non può bastarmi quel semplice ricordo e altre fuggevoli occasioni, conferenze stampa e presentazioni di film, per scrivere il ritratto di un un personaggio gigantesco e complesso come Fellini. Perciò mi affido alle parole di testimoni autorevoli.

Non amo incondizionatamente Oriana Fallaci, ma è suo il miglior ritratto di Fellini – scritto con l’abituale crudezza – che abbia letto, nel libro Gli Antipatici: «Conosco Fellini da molti anni, da quando lo incontrai a New York per la prima americana del suo film Le notti di Cabiria e diventammo un po’ amici, andavamo spesso a mangiare le bistecche da Jack’s o le caldarroste a Times Square. A volte capitava nell’appartamento che dividevo in Greenwich Village con una ragazza di nome Priscilla. Mi chiamava Pallina, si faceva chiamare Pallino, in certi casi Pallone, si abbandonava a stravaganze innocenti come piangere al bar del Plaza Hotel perché il critico del New York Times aveva scritto male di lui, o passare da prode. Frequentava infatti la bionda di un gangster e questi gli telefonava ogni giorno all’albergo dicendo “I will kill you”, ti ammazzerò. Lui non sapeva l’inglese e rispondeva “Very well, very well”: alimentando la fama di uomo prode. La fama durò fino a quando non gli spiegai che “I will kill you” vuol dire “Ti ammazzo”. Mezz’ora dopo la spiegazione, Fellini era sopra un aereo e viaggiava verso Roma». Nient’affatto crudo Pietro Citati, ch’era stato un suo grande amico: «Per più di vent’ anni, sono andato a cena con Federico Fellini. L’appuntamento era, sempre, alle venti davanti a casa mia, in una piccola strada silenziosa del quartiere Parioli: nella casa di fronte, Fellini aveva abitato per qualche anno, subito dopo il matrimonio con Giulietta Masina. Arrivava sempre in anticipo. La cena, sempre al ristorante: al Grand Hotel, all’Hassler e poi, più spesso, da Cesarina. Intorno all’incontro di due amici, non dovevano esserci case né famiglie né mogli. Eravamo due vagabondi senza patria né dimora… Parlavamo di ogni cosa: letteratura, raramente cinema, aneddoti, ricordi, persone, misteri, dèmoni, religioni, vita, morte, persino gli dèi o Dio. Se parlava di libri, sembrava che nessuno vivesse, come lui, dentro un libro: se parlava di persone, le ascoltava, le decomponeva, conosceva tutte le molle che le facevano agire; e su qualsiasi cosa lasciava cadere la sua luce mite, pigra ed estrosa. Aveva un’intelligenza morbida, rapida, colorata, senza schemi né presupposti, pronta a trasformarsi nello scintillìo di un’onda o nell’ombra di una nuvola rosa. Capiva tutto al volo: anche quello che non avevo ancora pensato… Non mentiva mai. Aveva una dote rarissima: la tenerezza o, come diceva Sainte-Beuve, il vellutato del cuore… Nutriva un’immensa curiosità per tutti gli esseri umani: anche per quelli insignificanti e noiosi. Ogni cameriere o tassinaro costituiva, per lui, un universo.»

Alberto Sordi, nel giorno della morte di Fellini: «La nostra amicizia non aveva niente a che vedere con il lavoro. Un’amicizia cresciuta nella latteria di via Frattina. C’erano Steno, Marchesi, Metz e vicino c’era l’antiquario Apollonio dove vedevamo De Sica e altri personaggi famosi. Allora Roma si girava a piedi, da piazza del Popolo a piazza di Spagna era uno scherzo. Facevamo notte passeggiando, parlando di tutto. Nelle soste al Café de Paris a via Veneto, c’erano Patti, Talarico, Flaiano, a volte veniva Ungaretti. Era un tavolo dove ci si arricchiva d’impressioni, di modi di dire, di opinioni… In questi ultimi tempi ho sperato che accadesse un miracolo. L’ho chiesto anche in preghiera. Per fortuna per noi esiste il cinema, che ci fa vivere oltre la morte». Non ci sono solo elogi! Come ogni creatura umana, anche Fellini aveva gravi difetti, anche non giustificabili. La sua storica amicizia e collaborazione con Ennio Flaiano si interruppe perché Fellini un giorno di espresse con arido cinismo a proposito della figlia, minorata, del suo grande sceneggiatore. Ecco la testimonianza, non convenzionale, di Anita Ekberg: «Era un tipo molto esigente quando dirigeva, incline a improvvisi attacchi d’ira. Sul set era un padrone assoluto, d’altronde lui stesso lo diceva che fuori dal set si sentiva vuoto. Apparentemente gentile, in realtà un despota. In privato era un disastro… Prima di tutto non aveva rispetto delle donne, affamato di sesso chiedeva prestazioni particolari. Gli devo certamente molto, ma anche lui deve molto a me. Anzi, forse più lui a me che io a lui per la famosa scena nella fontana di Trevi, nella Dolce Vita. Fellini era uno che carpiva idee agli altri, persino all’ultimo dei macchinisti, e le faceva proprie, senza poi riconoscerne la paternità a chi di dovere. Quello che mi dava fastidio è che lui era falso, voleva apparire diverso da ciò che era, non era coerente. Era un uomo razionale che dimostrava poi di essere assolutamente irrazionale… Tutti sanno che era fissato con maghi e veggenti, come una donnetta… diciamola tutta, era un provinciale. Si affidava alla divinazione di sensitivi, figuriamoci… e per me, che sono sempre stata con i piedi piantati a terra, era francamente insopportabile». Sandra Milo, che lo amò, riamata, a lungo: «Credo di essermi innamorata di Fellini la prima volta che l’ho visto, era speciale. Aveva una mente complessa, non era facile capirlo né lui amava farsi leggere chiaramente». Fellini e Flaiano? «Tra loro c’è stato un periodo di adorazione reciproca, poi il sodalizio finì. In Fellini l’artista prevaleva talmente tanto sull’uomo che una volta scambiati sapere, saggezza e conoscenza con l’interlocutore, Federico considerava esaurito anche il rapporto. Gli ho visto chiudere da un giorno all’altro rapporti intensissimi. E ho visto soffrire in maniera straziante Flaiano e altri. Sembravano amanti delusi, idealizzavano allo spasimo e poi si ritrovavano con la cenere in mano a chiedersi i perché della fine. Fellini non soffriva né sentiva dolore. Lo cancellava. E ripartiva. Aveva sempre bisogno di stimoli nuovi, di passare da un’infatuazione intellettuale o amorosa a un’altra». Cosa aggiungere?

Era nato il 20 gennaio 1920 a Rimini, morì il 31 ottobre 1993 a Roma. L’elenco dei suoi film è straordinario. Ha vinto cinque Oscar, ha trionfato a Venezia e Cannes. Cito solo i miei due preferiti, La dolce Vita e Otto e mezzo. Parlando di sé, Fellini amava stupire. La dolce Vita? «Non mi piacerebbe sentir dire che ho tentato di stupire, che voglio fare il moralista, che sono troppo autobiografico, che ho cercato nuove vie. Non mi piacerebbe sentir dire che il film è pessimista, disperato, satirico, grottesco. E nemmeno che è troppo lungo. La dolce Vita, per me, è un film che lascia in letizia, con una gran voglia di nuovi propositi. Un film che dà coraggio». E a un giornalista francese che gli chiedeva il senso dei suoi film: «Non voglio dimostrare niente, voglio mostrare». E cosa intendono gli americani con felliniano? «Posso immaginarlo: opulento, stravagante, onirico, bizzarro, nevrotico, fregnacciaro. Ecco, fregnacciaro è il termine giusto». Infine, gli amori. Che Federico Fellini amasse le donne non è un mistero. Giulietta Masina è stata per lui musa ispiratrice, oltre che superba attrice in molti suoi film, ma non era la sola nel suo cuore. Ebbe amoretti, ma tanti tanti. Federico aveva uno studio a Cinecittà con due porte. Da uno poteva entrare la Masina e dall’altra faceva uscire la fiamma del momento. A Fellini le donne piacevano alte, grosse, anche muscolose. Perché aveva avuto una tata, l’Anselma, giunonica, che lo scapricciava massaggiandolo come la pasta sfoglia. Amante storica fu Sandra Milo, poi ribattezzata Sandrocchia. La loro relazione durò per 17 anni. E fu vissuta quasi alla luce della sole, sotto gli occhi di Giulietta. E Sandra, burrosa, spiritosa, ridente, leggerissima, lo stimolò. Anna Giovannini, farmacista, conosciuta sull’orlo di una brutta depressione, fu un’altra amante di Fellini. La chiamava «la Paciocca», ed era quasi una moglie parallela per Federico. La portava a cena fuori, in ristoranti dov’era conosciuto, senza la minima paura di essere scoperto. Fellini rifuggiva, con le amanti, i ruoli consolidati, i rapporti duraturi. Per questo aveva ed ebbe, eterna, Giulietta. Gianfranco Angelucci ha scritto: «Ebbero una crisi all’epoca di Otto e mezzo. Passata la bufera si è creato fra i due una sorta di sodalizio: penso che Fellini non potesse vivere senza la sua Giulietta che era diventata molto materna nei suoi confronti e lei stessa non ce l’avrebbe fatta ad andare avanti senza di lui. Allora non c’erano i cellulari e lui la chiamava anche 20 volte al giorno da qualsiasi posto si trovasse». Giulietta Masina lo descriveva così: «Sembra un fachiro, somiglia a Gandhi. È tutt’occhi, occhi profondi, inquieti, indagatori». Nel 1945 erano diventati genitori del piccolo Pier Federico, ma il loro unico erede morì 33 giorni dopo. Molti anni dopo Giulietta disse: «Non aver avuto figli ci ha fatto diventare figlio e figlia dell’altro, così ha voluto il destino».