A cavarsela davanti a ogni ostacolo l’ha imparato da ragazza, praticando equitazione agonistica. L’ex amazzone Francesca Morichini, 40 anni, romana, è oggi responsabile delle risorse umane, nonché unica donna nel leadership team, del Gruppo Amplifon, multinazionale italiana con 14 mila persone, 2900 negozi, un miliardo e 300 milioni di euro di fatturato nel 2017, presente in ventidue paesi e leader nel settore delle soluzioni per i disturbi uditivi.
Amplifon, dove Morichini è arrivata giusto un anno fa, è l’ultima di una serie di tappe diversissime della sua carriera. Carriera che avrebbe dovuto cominciare dal concorso in diplomazia, con la sua laurea a pieni voti e lode in Scienze Politiche. Il caso ha voluto che nel 2000, pochi giorni prima di discutere la tesi alla Luiss, accompagnasse il suo fidanzatino a un carrier day dove si presentavano i curricula e si lasciavano delle schede compilate. Già che c’era, ne compilò una anche lei e al punto in cui veniva chiesto di scegliere tra i reparti aziendali, mise una crocetta alla voce ‘risorse umane e organizzazione’. Una scelta che le ha segnato la strada.
“Il giorno dopo mi chiamarono dalla Procter&Gamble per una selezione. A mia madre Nadia che mi chiedeva cosa producesse quell’azienda, risposi non lo so, mi pare scopette per il bagno. Stavo rileggendo la tesi. Ma feci il test assieme ad altri concorrenti per lo più laureati in economia e ingegneria. Lo superai. Ho iniziato lo stage in risorse umane e mi sono innamorata del lavoro”. Un tirocinio di tre mesi nella società di beni di consumo. Sia chiaro, le avevano detto subito, non hai alcuna possibilità di inserimento, “io pensavo: intanto guadagno qualche soldo, mi rendo indipendente”. Finito lo stage, il capo l’avvertì che nell’ufficio delle pubbliche relazioni, vista la valutazione molto buona, avevano proposto di tenerla per un altro periodo. Ma lui si era opposto. “Sarebbe la scelta sbagliata, noi comunque ti richiameremo”.
Accadde in effetti, un anno dopo, ma Francesca Morichini aveva già compiuto altri passi avanti e si trovava per un nuovo stage alla Barilla, nell’head quarter di Parma. “Avevo sostenuto dei colloqui. È importantissimo scegliere le aziende giuste per incamerare saperi e competenze e non necessariamente inseguire il contratto. Ero giovane e avevo una famiglia che mi dava supporto. In ogni caso mi è andata bene perché lo stage si è tramutato in un contratto a tempo indeterminato”. Resta in Barilla fino al 2004, “un’azienda italiana in grande trasformazione e in fase di espansione internazionale”. Lavorando scopre il mestiere del ‘business partner’, una funzione all’interno del settore risorse umane che contribuisce alle migliori scelte in termini di organizzazione, cultura aziendale e persone, nel pieno rispetto dei valori del marchio e degli stessi dipendenti.
“In Barilla ho avuto un capo che mi consigliò di farmi le ossa anche sulle linee produttive. Era convinto che per gestire il personale, bisogna sapere bene ciò che fa ognuno, quali sono i compiti e conoscere i meccanismi che regolano le attività industriali. La filosofia era ascoltare i lavoratori a tutti i livelli dell’organizzazione e interagire con loro. Perché ciascuno nel proprio ruolo può contribuire a fare la differenza”. La manager seguì il consiglio. Di giorno lavorava in ufficio, la notte passava delle ore nei reparti dedicati alla confezione dei biscotti Ringo e delle barrette di Cerealix. Notò che ogni volta che il giro della linea finiva, cascava un pacchetto. Chiese agli operai come si potesse evitare quell’inefficienza. Loro avevano la soluzione: basterebbe fare questo e questo, e il problema non esisterebbe. Lei domandò: perché non è stato fatto? La risposta fu: nessuno ce lo ha chiesto. In seguito la Barilla avrebbe lanciato un progetto denominato Sos per dare la possibilità ai ragazzi più brillanti di crescere.
Nel 2004 Francesca Morichini saluta Barilla per il gruppo L’Oréal, a cui aveva spedito un curriculum. È ancora molto giovane e aspira a un orizzonte internazionale. Comincia nel ruolo di business partner e prosegue in quello di rappresentante di vendita per Lombardia e Liguria. Le viene affidata la responsabilità delle risorse umane della divisione largo consumo dei prodotti Garnier e Maybelline, marche vendute nella grande distribuzione. “Grandissimo lavoro di recruiting per attrarre persone di talento, sulle strutture commerciali e nella gestione del cambiamento”. L’azienda la destina a Parigi e dalla capitale francese, come responsabile hr per l’Europa dell’Est, viaggia buona parte del tempo tra Estonia, Polonia, Ucraina, Bulgaria e Romania. “Vivevo in aereo, è stata un’altra bella prova di carattere”.
Finché un ex collega, inserito nel gruppo Bialetti come direttore generale di un’area, le chiede se è disponibile a incontrare il suo amministratore delegato nonché proprietario, Franco Ranzoni, per illustrargli il ruolo del moderno hr. La Bialetti, nella sua sede a Bergamo, era in una fase di radicale restyling e si preparava alla quotazione in Borsa.
In uno dei suoi week end in Italia, Francesca Morichini trova il tempo per una lunga chiacchierata con il titolare del marchio dell’‘omino coi baffi’. Un mese dopo riceve la proposta di diventare direttore risorse umane della società e la richiesta di definire un progetto. Dopo Barilla, Bialetti, un’altra azienda italiana e, seppur piccola, un brand storico. Il progetto piace e la manager accetta il suo primo incarico come hr officer. “Era il 2007 e avevo 29 anni, potevo permettermi il rischio di un errore: mi trasferii a settembre e ci sono rimasta per tre anni”. Bialetti aveva un migliaio di dipendenti e andava sanata. Un’impresa ad alto tasso di difficoltà. Licenziamenti ma anche assunzioni. “Ho creato un team hr da zero, una squadra di ragazzi, è arrivato un nuovo ad, inserimmo tantissime persone, capimmo cosa significava valorizzare un’azienda italiana e la sua eccellenza nel mondo”.
La manager che non ha mai bevuto un caffè, ma colleziona caffettiere, accoglie la sfida con la crescita delle filiali all’estero e il rafforzamento della catena retail. “Ma l’azienda era in perdita e ho dovuto anche chiudere due stabilimenti e ristrutturare la sede centrale. È stato un percorso di costruzione di competenze nelle relazioni industriali, come manager il mio compito era portare a casa il risultato, operando tuttavia nel pieno rispetto delle persone, nel modo più etico e corretto”. Chiuse un impianto nel Verbano, in Piemonte, un’area in cui tantissime aziende erano in crisi, con 150 addetti. Era difficile ricollocarli, ma voleva sostenerli nella ricerca di un’alternativa. “Fu fondamentale il lavoro col sindacato, Bialetti non aveva grandi risorse economiche da impiegare, e lì mi resi conto di quanto fosse importante nel mio mestiere andare oltre il ruolo di manager, mettere in campo la mia faccia di Francesca, identificandomi con i valori dell’azienda. E il mio team collaborò alla grande. Ognuno si prese in carico 50 lavoratori, li incontrammo uno per uno, li aiutammo a scrivere i curricula. Nessuno si tirò indietro. È stato faticosissimo ma riuscimmo a risolvere parecchie situazioni”. Resta traccia dei grazie ricevuti, “in particolare uno mi scrisse: ho un nuovo lavoro in una cartiera, forse è anche più bello, a Oneglia; senza il suo sostegno non avrei avuto il coraggio di rimettermi in campo”.
Di stabilimenti ne ha dovuti chiudere altri alla Whirlpool, dove è passata sul finire dell’estate 2009 come direttore delle risorse umane di 14 stabilimenti in Emea (Europa, Medio Oriente e Africa), unica donna al tavolo delle contrattazioni impresa-sindacato, per otto anni. “Ho gestito piani industriali, seguito l’acquisizione della Indesit, nel 2015 sono diventata vice president hr per l’Emea, preso decisioni di business inevitabili per permettere all’azienda di andare avanti, ma sempre con coerenza e nel miglior modo possibile”.
Fin dalle mosse iniziali, una delle grandi sfide di Francesca Morichini è stata il suo essere una ragazza e poi una donna ai tavoli popolati da maschi. “Qualcuno ha tentato di mettermi in soggezione, ma nessuno mi ha mai detto che non potevo fare una cosa perché ero una donna. Suggerisco sempre alle ragazze di non vivere questa condizione come una difficoltà, e per fortuna questo clima sta cambiando. Sono donna, uso le mie caratteristiche di donna. Di solito quando ci sediamo a tavola, mi dicono che sembro un uomo perché mangio più di loro”.
Da Amplifon le arriva la proposta per la posizione di chief hr officer che ora occupa da un anno esatto. “Non stavo cercando attivamente. Mi hanno contattato, era un progetto bellissimo, di nuovo un’azienda italiana nel mio percorso, ma molto internazionale, in crescita e trasformazione, che da media passava a grande taglia”. Un settore che permette di migliorare la vita delle persone e offre a lei la possibilità di essere ancora agente di cambiamento, in un contesto vivo per tecnologia e digitalizzazione. “Il mix perfetto per le mie esigenze professionali. Considero Amplifon una grande start up, a volte viene intesa come un target rivolto alle persone anziane, in realtà è un’azienda giovane. Una multinazionale a tutti gli effetti. La sfida è farla conoscere e apprezzare”. Il 31 per cento dei direttori generali Amplifon nel mondo sono donne. “Rispetto alle precedenti esperienze, questa volta ho una sfida al contrario: gestire la crescita aziendale, che procede a ritmo elevato, con l’obbiettivo di sviluppare risultati a due cifre, inserire persone oggi per portare le competenze dei collaboratori a un livello di qualità eccellente, affinché tutti si sentano parte di unica squadra, sviluppando talenti e soddisfazione nel lavoro”.
Dagli Usa all’Australia, i viaggi di lavoro sono sempre frequenti, “vado per assicurare vicinanza ai nostri clienti interni e al business. Mi hanno proposto diverse volte di passare al business, ma credo ci sia ancora tanto da scoprire in questo mestiere. Le difficoltà e gli intoppi non mancano, per carattere sono ottimista, è molto difficile non vedermi col sorriso sulle labbra, ma sono anche esigente verso me stessa e gli altri”.
E poi c’è la famiglia, l’incontro con il suo compagno, anche lui hr, un figlio, Luca, nato nel 2010. Un cambiamento di vita rilevante, in situazioni complesse, nel non facile bilanciamento tra vita professionale e personale. “Non volevo togliere nulla alla mia famiglia. L’aiuto di mia madre Nadia è stato preziosissimo. Adesso il mio compagno lavora in Svizzera, ma ci siamo sempre divisi i compiti. Ho imparato a riorganizzare la gestione del mio tempo nelle diverse fasi di crescita del bambino. Quando lui dormiva, ne approfittavo per lavorare. Ho rivisto l’agenda. Lo porto a scuola tutte le mattine, rientro per le otto di sera, la baby sitter va via e noi giochiamo, guardiamo i compiti, e quando lui va a letto, accendo il computer. L’obbiettivo è arrivare al sabato e domenica senza arretrati, e nel week end sono completamente dedicata a lui. Più sono serena al lavoro e meglio faccio la mamma. Adesso abbiamo anche un cagnolino, un bassotto di nome Pippo che si è unito alla famiglia l’anno scorso, il primo giorno delle elementari di mio figlio a Milano”.
Francesca Morichini ha fatto anche di più. Il suo compagno ha altri due figli, ora ragazzi cresciuti, ma quando erano ancora piccoli c’era un incastro di spostamenti per essere sempre presenti con tutti. “Il venerdì sera prendevo il mio piccolo e ci trasferivamo in un’altra casa vicina ai due bimbetti più grandi, e la domenica sera si rientrava. Il work life balance perfetto non esiste, ma tempi e organizzazione li decido io”.
Le piace cimentarsi in cucina, non piatti leggeri, da brava romana predilige gricia, carbonara, amatriciana, saltimbocca. Le piacciono i libri storici, ora però per lavoro sta leggendo ‘The start up way’ di Eric Ries. A suo figlio cerca di offrire molti stimoli. “Andremo a Venezia con un programma appropriato per lui. A Murano si va a vedere la fabbrica del vetro, lui potrà costruire piccoli mosaici, staremo tutti insieme. Sono cresciuta in una famiglia che mi ha sempre sostenuta, mi ha permesso di vivere esperienze diversificate. Mio padre è medico, mia madre insegna educazione fisica, ho un fratello di due anni più piccolo, anche lui medico. Ho avuto la fortuna di viaggiare con loro, montavo a cavallo, facevo nuoto e ginnastica artistica. Mi dicevano: il tuo compito è andare bene a scuola, era il mio dovere. La nostra filosofia è: si può fare tutto, basta saper stare in ogni contesto, e prima di chiedere bisogna aver dato”.
Patrizia Capua, Repubblica.it