Lo scorso aprile 27 dei 28 ambasciatori europei in Cina, compreso quello italiano, hanno sottoscritto un report molto critico sulla Via della seta cinese. Un atto di accusa contro il progetto globale di investimenti in infrastrutture commerciali congeniato da Xi Jinping, che “contrasta con l’agenda europea di liberalizzazione e spinge gli equilibri di potere in favore delle società cinesi sussidiate”. Da allora l’Europa non ha cambiato idea: lo scetticismo verso One Belt One Road è sempre maggiore e la Commissione ha lanciato un suo piano alternativo. Ad aver cambiato idea è l’Italia, che tra un paio di settimane, quando il vice premier Luigi Di Maio tornerà per la seconda volta in visita nel Paese, potrebbe diventare il primo Paese fondatore dell’Unione e il primo membro del G7 a firmare il memorandum di intesa sulla Via della seta.
Cosa è successo nel frattempo? Che 5Stelle e Lega hanno formato un governo, teorizzando una svolta verso Est della politica estera nazionale. Tutti pensavano alla Russia, si vedrà come voteremo sulle sanzioni, ma per il momento l’Oriente a cui l’Italia ha guardato di più è la Cina. Nelle scorse settimane esponenti di punta del governo sono sbarcati a ripetizione tra Pechino e dintorni. Prima il ministro dell’Economia Giovanni Tria, poi Di Maio. Con la famosa accelerazione: “Vorremmo chiudere il memorandum già alla mia prossima visita a novembre a Shanghai”, ha detto a fianco del sottosegretario Michele Geraci, dieci anni di vita e lavoro in Cina, mandarino fluente, l’uomo che in questo governo tesse i rapporti con le autorità comuniste con tanto di Task Force dedicata creata al Mise.
Cosa il governo gialloverde cerchi è semplice: investimenti. La scorsa settimana a Milano Tira ha incontrato il numero due di Cic, China Investment Corporation, il più grande fondo sovrano del mondo. All’inizio del 2019 dovrebbe essere firmato l’accordo per creare un fondo italo-cinese di investimento sui due mercati. E poi ci sono i famosi porti del Nord Adriatico e del Nord Tirreno, che potrebbero essere dei punti di approdo naturali per il ramo marittimo della via commerciale di Xi. A Trieste, che tra mille campanilismi ora pare in pole position, i colossi marittimi mandarini costruirebbero e controllerebbero un nuovo molo. “Vogliamo essere il primo partner della Cina in Europa”, ha detto Geraci.
Ma a che prezzo? La firma dell’Italia in calce alla Via della seta è un riconoscimento importante per la Cina, una breccia nel cuore dell’Europa. Finora ad aver siglato il memorandum erano Paesi della “periferia” come Ungheria e Grecia, e Bruxelles aveva reagito scoraggiando ulteriori adesioni. Con Roma entrerebbe un membro fondatore, la terza economia dell’Unione. Questo proprio nel momento in cui la Ue ha lanciato (un po’ in sordina) il suo piano infrastrutturale alternativo e in cui si stanno finalizzando le discussioni sul nuovo meccanismo di screening degli investimenti che proprio l’Italia aveva promosso con Francia e Germania, preoccupate per le acquisizioni cinesi di tecnologia industriale strategica. A Bloomberg il sottosegretario Geraci ha detto che Roma non vuole più una politica comune europea sugli investimenti: “Abbiamo 28 diverse economie con 28 interessi diversi”.
Senza dubbio dialogare con la Cina è nell’interesse dell’Italia (come del resto di Berlino, che chiude affari a ripetizione). Da premier, Paolo Gentiloni era stato l’ospite più importante al primo forum sulla Via della seta, ma questo non ha impedito al precedente governo di alzare la voce contro le pratiche anti-concorrenziali di Pechino, per esempio votando contro il riconoscimento dello status di economia di mercato. “Avere una politica più attiva verso la Cina è ottimo, ma va condotta con le giuste valutazioni e questo dibattito in Italia sembra mancare”, dice Lucrezia Poggetti, ricercatrice del think tank tedesco Merics. Per esempio non si è discusso sull’opportunità di commissionare l’infrastruttura 5G a Huawei, già bandita negli Stati Uniti e in Australia perché considerata una minaccia della sicurezza nazionale. Né su quella di accodarsi a una infrastruttura commerciale come la Via della seta che la Cina, sottoscriveva pure il nostro ambasciatore, ha disegnato prima di tutto per sé. L’impressione è che l’avvicinamento gialloverde sia più frutto dell’opportunismo che di una strategia. Durante il primo viaggio da sottosegretario in Cina, Geraci si è definito il “venditore dei titoli di Stato italiani”. Ed è noto quanto il Tesoro avrà bisogno di compratori di bond una volta che gli acquisiti della Bce cesseranno.
“Essere il primo Paese di questa portata a negoziare ci permette di ottenere di più”, secondo il sottosegretario. Vedremo, secondo molti il memorandum di intesa è un Pdf che Pechino spedisce fatto e finito, prendere o lasciare. Ammesso e non concesso che il governo gialloverde abbia chiaro cosa vuole ottenere, la Cina ce l’ha chiarissimo, basta vedere come negli altri Paesi partner, per esempio in Grecia, sfrutta i suoi investimenti per influenzare dossier di ogni tipo, anche sui diritti umani. “La Cina non ha interesse a una Europa disgregata, perché beneficia del mercato unico – dice Poggetti – ma usa le tensioni interne dell’Unione per portare avanti la sua agenda”. Nell’Italia gialloverde potrebbe aver trovato il suo Cavallo di Troia.
Filippo Santelli, Repubblica.it