Il re delle radiocronache scriveva storie per Jannacci
Ex calciatore, aveva giocato nelle giovani della Lazio: «La rivalità con la Roma è stata creata negli anni Settanta. Durante la guerra ci dividevamo le razioni militari»
Ho giocato per diletto a calcio con Raimondo Vianello, Pier Paolo Pasolini, con cantanti, scrittori, attori: appassionati di calcio, alcuni bravi e tosti (pochi), schiappe anzi pipponi, così si diceva (quasi tutti, me compreso, ovviamente). E ho giocato anche con Sandro Ciotti, celebre radiocronista. Con questa piccola differenza, rispetto alle velleità di tutti noi: Ciotti era stato un professionista, un calciatore vero, preparato, cinico, smaliziato. Aveva giocato nelle giovanili della Lazio, nel Forlì, in serie C con l’Anconitana, nel Prosinone. Un asso e un idolo nelle partitelle tra di noi poveracci. Subito, ecco un bel ricordo di Gianni Mura, il giornalista più simile a Gianni Brera, tra i tanti che cercano di emularlo: «Ciotti non avrebbe sbagliato un congiuntivo nemmeno sotto tortura. L’ho conosciuto nel ’65, aveva ancora una voce normale. Quell’altra, prima increspata poi rauca, diceva che gli era venuta dopo una radiocronaca di 12 ore filate sotto la pioggia alle Olimpiadi messicane. Una pacchia per gli imitatori, quella voce, ma anche la sua cifra stilistica, la riconoscibilità, il suo modo discreto di entrare nelle case, di raccontare lo sport e non solo… Da radiocronista aveva coniato qualche espressione: il mediano di sostegno, mezzala di raccordo, terzino fluidificante, ventilazione inapprezzabile e spalti gremiti ai limiti della capienza. Forte degli studi classici, usava una lingua accessibile, costruzioni semplici, chiare, ogni tanto un po’ ricercata». Il necrologio: «La notizia della sua morte, ma da tempo stava male, mi lascia il dolore quieto di quando se ne va uno con cui si sono divisi chilometri, cene, incazzature, sigarette e fatiche, tutto quello che c’è intorno a quel che si chiama oggi evento. Stava male, la voce era sempre più roca, incatramata. Sembrava venire da un lontano che in realtà era sempre più vicino…».
Per come l’ho conosciuto io, ma non ero certo un intimo amico, Ciotti aveva una evidente, alta considerazione di sé. Ma con uno stile raro, se non addirittura singolare: tra smetteva simpatia perché non era altezzoso, ma bonario, non era superbo, ma ironico anche verso sé stesso. E del resto, che gli potevi dire? Era bravo, il più bravo. Perciò vi propongo altre riflessioni, tratte ancora dal ritratto di Mura, in un bel libro di cinque anni fa (Non gioco più, me ne vado. Gregari e campioni, coppe e bidoni, leggetelo): «Ciotti è diventato “the Voice” (questo, gli piaceva, il paragone con Frank Sinatra) in una Rai in cui era ancora possibile spaziare tra i generi, senza rinchiudersi a vita nell’orticello di una specializzazione. Gli piaceva la musica, gli piaceva il calcio, il ciclismo (15 Giri, nove Tour). Cambiava abito: dalle tute azzurre della Rai d’una volta, piene di tasche e cerniere, allo smoking, ma la qualità del servizio (asciutto, essenziale, guai ad allungare il brodo) restava uguale, alta, inconfondibile. Sì, la fedeltà della gente si conquista, non si compra. E nella fedeltà di Ciotti all’avvenimento (2.400 partite, 14 Olimpiadi, 40 Festival di Sanremo) il pubblico vedeva appagata la sua fiducia. Io gli ho creduto quando mi ha raccontato che Luigi Tenco non si era ucciso, mai l’avrebbe fatto, ma era stato ucciso Ciotti era lì, e in più mi diceva una cosa che volevo credere. Perché dargli torto?».
Ma rieccomi al calcio, la sua passione: dico come calciatore, più che come radiocronista. Non l’ho conosciuto profondamente, Ciotti, ma giurerei che il suo maggior compiacimento per quanto faceva – ed era tanto, tantissimo – si riferiva soprattutto alle partite di calcio, in cui era primattore con gli scarpin i bullonati (molti di noi si presentavano in campo con le scarpe da ginnastica, tanto per darvi l’idea del livello). Giocava a centrocampo, ammiravo la sua capacità, da ex professionista, di trovarsi al posto giusto nel momento giusto. E picchiava, come suol dirsi da sempre, come un fabbro. Sportivamente, senza cattiveria, ma durissimo. «Ahò», gli soffiai in faccia durante una partitella allo stadio Flaminio, «attenzione, finisce che ci facciamo male». E lui, che aveva 14 anni più di me, sorridendo: «Non te l’hanno detto che il calcio non è sport per signorine?».
Sul calcio è imperdibile un aneddoto, tratto ancora dai ricordi di Gianni Mura: «Gli ho dato retta anche una sera a Tolosa, quando si giocava la rituale partita tra i giornalisti francesi del Tour e il cosiddetto Resto del mondo. Il nostro capitano era Ciotti, naturalmente. “Giovane Mura (allora mi chiamavano così, aveva cominciato Gualtiero Zanetti), tu marchi quello tozzo, il numero 8, lo vedi quello un po’ zoppo?”. Sì che lo vedevo, non l’avrei visto molto nel senso della marcatura. Fintava con la gamba offesa e tirava stangate che il nostro portiere non intercettava. Sostituito con ignominia alla fine del primo tempo (4-0 per loro, tre gol dello zoppo) dissi a Ciotti: ma chi è questo? E lui, serafico: “Just Fontaine, capocannoniere ai mondiali del ’58 in Svezia, dovevi picchiarlo un po’”».
«Vorrei morire cantando», aveva detto a un amico. «Non ci è riuscito, ma ha scritto canzoni per Fred Buscaglione, Marino Barreto, Bruno Martino, uno dei suoi grandi amici, e la più famosa di queste canzoni è Veronica, proprio quella di Enzo Jannacci, così milanese eppure scritta da un romano». Altri ricordi… Era amico di Salvatore Accardo («È come Platini, solista e uomo orchestra») ma anche di Sofia Loren, Gina Lollobrigida, Monica Vitti, Nino Manfredi, Alberto Sordi… Da radiocronista Ciotti ha portato eleganza, pulizia della lingua, competenza. Ironia fine… Era un abitante della notte. Con l’ennesima sigaretta sempre senza filtro, sempre americana, ad azzurrare la stanza. («Sai perché la prima sigaretta del mattino è la più buona? Perché è la più distante dall’ultima»). Il grande lo ricorda come «il miglior giornalista sportivo che ho mai conosciuto». A nome dei suoi colleghi, Riccardo Cucchi: «È stato il maestro – insieme con Enrico Ameri e Alfredo Provenzali di un’intera generazione di radiocronisti… Le sigarette senza filtro e i colletti delle camicie di Sandro Ciotti fanno parte della nostra storia». «Lo ricordo al suo tavolo da Dante, mentre fumava e cenava in compagnia di una splendida donna: ogni volta diversa, perché come Alberto Sordi lui amava a tal punto il genere femminile da aver scelto di non sposarsi mai, di non legarsi a una sola donna. Per me, aspirante giornalista, era un mito».
Ciotti definiva così la radiocronaca: «Un esercizio più alto della telecronaca. Una splendida amante che però va rispettata come una moglie. Un esaltante modo di comunicare, in diretta, a milioni di ascoltatori che pendono dalle tue labbra. Ma obbliga a un’attenzione feroce». La Lazio era la sua squadra del cuore: «Per me la Lazio è soprattutto un callo. Quello che inalbera il dito piccolo del mio piede sinistro da una lontana domenica del 1943. All’epoca era abitudine quasi sacrale di ogni club far “sformare” le scarpe nuove da gioco, destinate ai titolari, dalla squadra ragazzi, in modo da ammorbidire il cuoio e farle modellare al piede. A me toccarono quelle di un famoso bomber dell’epoca, Buby Koenig, idolo delle ragazzine dei Parioli. E dopo 20 minuti di gioco la frittata, anzi il callo, era fatto. Piccolo e tanto maligno da indurre alla resa anche i podologi più prestigiosi. Ma è un callo a cui voglio bene. Mi ricorda un ambiente, quello della Lazio di allora, che ha rappresentato per me l’unico riscatto dalla drammatica dimensione della guerra, una sorta di oasi dove dimenticare tre volte alla settimana l’incubo della fame, delle bombe, del coprifuoco, dell’oscuramento totale. Specie il giovedì, per la partitella noi ragazzi ci mischiavamo con i titolari ai quali davamo rigorosamente del lei. Era un sogno poter toccare, magari anche con un tackle duro, Silvio Pioia, l’idolo meno idolo che abbia mai conosciuto». Sulla rivalità tra Roma e Lazio: «Mi fanno ridere quelli che parlano di odio antico tra Lazio e Roma. È una cosa creata dai tifosi negli anni Settanta, mai esistita prima. Quando giocavo nelle giovanili della Lazio, noi stavamo alla Rondinella, a due passi dal cinodromo. La Roma si allenava all’Apollodoro, cioè a dieci metri dalla Rondinella, allenatore Guido Masetti. Anni di fame e di stenti. Un giorno Masetti arrivò con un sacco pieno di pagnotte militari, catturate chissà dove e chissà come. Le distribuì ai suoi lupetti e pretese che i ragazzi le dividessero con noi. Che odio è questo?».
È famoso anche per le espressioni in diretta: indimenticabile «Clamoroso al Cibal !» (dopo il gol del 2 a o per il Catania contro l’Inter, in Tutto il calcio minuto per minuto, 4 giugno 1961). E anche: «A Bari la giornata è calda e languida come gli occhi di Ornella Muti», «A Firenze il cielo è striato d’azzurro come da contratto, l’autunno è un’ipotesi, e quasi nessuno parla del matrimonio di Pippo Baudo», «A Napoli la giornata è splendida, manca solo Enrico Caruso che canti O’sole mio». Lo struggente annuncio della morte di Gaetano Scirea: «È inutile spendere parole su un uomo che si è illustrato da solo per tanti anni su tutti i campi del mondo, che ha conquistato un titolo mondiale con pieno merito, e soprattutto era un campione non soltanto di sport ma soprattutto di civiltà». Il raffinato ricordo del Grande Toro: «Il Torino, la cui parabola ha ospitato ferite crudeli e successi epici e che il destino ha accarezzato come un fiore e trafitto come una lama saracena…». La superstizione: «Siamo giunti al minuto che intercorre tra il 16° e il 18 ». Sull’attesissimo primo gol di Roberto Baggio a Usa ’94, campionato del mondo di calcio: «Roberto Mussi entra in area, Mussi e poi c’è il tiro… E il gol di Roberto Baggio! Santo Dio era ora! Era ora!». E infine il suo sobrio, dignitoso addio: «Mancano soltanto dieci secondi per dire che quella che ho appena tentato di concludere, è stata la mia ultima radiocronaca 0 per la Rai, un grazie affettuoso a tutti gli ascoltatori, mi mancheranno». Era nato a Roma il 4 novembre 1928 e a Roma morì il 18 luglio 2003. Figlio del giornalista Gino Ciotti, ebbe come padrino di battesimo niente meno che Trilussa. Il padre morì quando Sandro aveva solo 15 anni, per una leptospirosi fulminante contratta nelle acque del Tevere.