Ogni anno circa cinquanta milioni di tonnellate di prodotti agricoli vengono scartati in Europa (4,5 milioni soltanto in Gran Bretagna) prima di arrivare sotto gli occhi dei consumatori, soltanto perché non rispecchiano certi standard di forma e dimensioni. E questo, denuncia il professor Reay, alla faccia di «un terzo della popolazione mondiale che è costantemente sottoalimentato». Lo spreco e la beffa: perché coltivare quei milioni di tonnellate di frutta e verdura costa anche in termini di energia, risorse e dunque «impronta» ambientale, l’equivalente (calcolano all’Università di Edimburgo) delle emissioni di 400 mila veicoli.
«Incoraggiare le persone a essere meno schizzinose nei confronti della frutta “brutta ma buona” potrebbe portare a una notevole riduzione degli sprechi», commenta Stephen Porter, un altro dei ricercatori che hanno lavorato al rapporto, in un mondo che già butta via per motivi vari 1,6 miliardi di tonnellate di cibo (un terzo della produzione totale, secondo le ultime stime — in continuo aumento — del Boston Consulting Group rese note pochi giorni fa). Come buttare via 1,2 miliardi di dollari, più o meno due terzi del Pil italiano.
Convincere i consumatori, ma allo stesso tempo adeguare la regolamentazione adattandola non a criteri «cosmetici» ma di sostanza. I ricercatori di Edimburgo sostengono che alcuni standard applicati dalla Ue potrebbero essere modificati a vantaggio di tutti (produttori compresi). E la classificazione in categorie I e II dei «prodotti freschi» potrebbe anche adottare idee «creative» per non buttare più la roba: le carote classificate come «imperfette» per le loro ridotte dimensioni potrebbero per esempio rientrare nella categoria delle «baby carote». Secondo lo studio scozzese, le principali vittime dello «scarto estetico» sono proprio le carote (10% della massa totale) e, ancora di più, le patate (77%). Dateci la patata bitorzoluta e la brutta carota: un delitto buttarle via.
Michele Farina, Corriere della Sera