(di Cesare Lanza per LaVerità) Scommettiamo che l’insulto, oltre a molti evidenti caratteri volgari e negativi, ha anche un valore socialmente insostituibile? Vogliamo cominciare con un sorriso e scherzare un po’? Un giorno il mio direttore, il maestro Antonio Ghirelli, di fronte a una stupidaggine di un giovane di redazione, esclamò un po’ alterato: «Per Dio, per Dio! Come hai potuto scrivere questa castroneria?». Totò, così lo chiamavamo con affetto, era un uomo molto educato, un direttore esemplare, elegante. Lo guardammo tutti stupiti e lui recuperò all’istante la sua proverbiale ironia: «Ragazzi, scusatemi. Ma a volte i messaggi hanno bisogno di un linguaggio efficace. Pensate che il mio rimprovero sarebbe arrivato ugualmente a segno se avessi detto: perdirindina, figliolo, questa piccola svista?». Se già non lo conoscete, vi segnalo anche il mitico monologo di Gigi Proietti sull’insostituibilità del termine «stronzo»: impossibile utilizzare al suo posto garbati eufemismi, almeno in certe situazioni. Per ultimo, in relazione alla qualità sociale dell’insulto, vorrei far riferimento a Beppe Grillo. Ripeto: normalmente gli insulti non mi piacciono, per la volgarità e l’inutilità. Ma qualcuno può ragionevolmente pensare che l’impatto di Beppe sull’opinione pubblica, sui politici e sui media avrebbe avuto la stesso efficacia, se anziché dire «vaffa» con il contorno di memorabili epiteti, si fosse limitato a parole sobrie, come un’educanda? Certamente no. Con gli insulti ha trafitto l’élite e la Casta e ha galvanizzato il popolo, crescente, dei suoi sostenitori.