Oggi compirebbe 90 anni, era il politico con la visione più lucida e originale di tutti

Francesco Cossiga
Caro direttore, da vivo gli hanno detto di tutto: pazzo, massone, infiltrato della Ciao del KGB, Kossiga, addirittura longa manus delle Brigate Rosse mandante dell’assassinio di Aldo Moro. Oggi che Francesco Cossiga avrebbe compiuto novant’anni, si può dire che è stato forse lo statista italiano che più di altri ha saputo leggere in anticipo la storia, con una visione lucida e dissacrante, attestata ai tempi, ma sempre originale e accompagnata da una curiosità senza pari per uomini e cose. Me ne accorsi da giovanissimo, lui emergente deputato ed io piccolo cronista dell’Ansa, e da allora un filo sottile ci ha legato tutta la vita. «Don Luigi, la devi piantare di arrivare nel mio condominio di via Cadlolo ad importunare le sorelle Mittiga. Sto indagando quale delle cinque in particolare». Spiazzante come sempre, prima di chiunque, aveva capito che bazzicavo in quel suo grande comprensorio, dove abitava anche il giurista Andrea Manzella, per corteggiare colei che sarebbe poi diventata mia moglie. Come giornalista ho seguito giorno e notte i 55 giorni del caso Moro, e sono testimone di come quella tragica vicenda lo abbia segnato, perfino sulla pelle, segno indelebile di un dolore insopportabile. Il giorno dopo il rapimento, ad una domanda su cosa avrebbe fatto se tutto si fosse risolto in poche ore un Cossiga, disperato ma risoluto, lasciò tutti di stucco: «mi dimetterò un minuto dopo. Hanno rapito il Presidente del mio partito e il mio punto di riferimento politico. Non è possibile che io resti un minuto di più. Non ho saputo proteggerlo». E, dopo 55 giorni, non ebbe un attimo di esitazione nonostante Giulio Andreotti, Presidente del Consiglio dell’epoca, lo pregò di rimanere al suo posto. Si rifugiò in Sardegna all’Hotel Cala di Volpe con Zanda, Anna Maria Brizi, Alfredo Masala, una specie di tuttofare Capo Saiu ed io che li raggiunsi per qualche giorno. Era invecchiato di botto, i capelli più bianchi e la sua vitiligine più evidente. Spesso camminava da solo, all’alba, con dei bermuda scozzesi sui prati del Pevero Golf, forse per ritrovare la forza e riflettere dopo quelle terribili settimane in cui non era riuscito a salvare il suo amico. Da allora scansionò il fenomeno del terrorismo, al punto di voler parlare negli anni anche con molti brigatisti per scoprire eventuali collegamenti con i “servizi” esteri e capire dove la Democrazia Cristiana, ma anche il Partito Comunista, avevano sbagliato. Interrogarsi sul passato per farsene una ragione. Leggere alcuni avve-nimenti per trarne insegnamento. Allargare le visioni per non lasciare spazio ad altro terrore. Capì per primo che i partiti non riuscivano più ad interpretare le esigen-ze della società civile, lo angosciava lo sbandamento del movimento studentesco, come la crisi della classe operaia, e con il crollo del muro di Berlino Cossiga comprese definitivamente che tutto sarebbe cambiato, non solo la politica, e le ripercussioni si sarebbero sentite dalla magistratura alla Chiesa. Era il 1991 e mi suggerì di far leggere ad Andreotti un’intervista del Cardinal Ratzinger dalla quale si capiva che il Vaticano si sarebbe poco interessato delle vicende italiane, nello stesso anno in cui ci mancò poco che i carabinieri, su suo ordine, facessero irruzione al Consiglio Superiore della Magistratura. Del futuro Papa era amico sincero da quando lo conobbe come teologo negli anni 80, prima ancora che diventasse arcivescovo di Monaco e prefetto del Sant’Uffizio. Con Ratzinger parlava di dottrina, in tedesco, a Bressanone, durante lunghe passeggiate e dopo, magari davanti a un piatto di spaghetti, si raccontavano barzellette. Rideva Cossiga di gusto ed era capace di arrabbiarsi furiosamente all’insegna del motto dei pastori sardi, secondo il quale «ad atto di guerra si risponde con atto di guerra». Una mattina riuscì addirittura ad infuriarsi con Gianni Letta, che adorava e tempestava di chiamate, perché la sua mite moglie, Maddalena, non glielo aveva passato immediatamente al telefono in quanto impegnato sotto la doccia. Nessuno come lui sapeva spaziare dalla filosofia alla storia, dal pettegolezzo mondano alle ultime diavolerie dell’elettronica. Ascoltarlo era davvero una lezione di vita. Se poi le spettatrici erano belle donne ,era delizioso vedere come le corteggiava ,senza mai dimenticare di mandare dei fiori il giorno dopo con biglietti galanti. Ed a proposito di fiori , grandi cesti di rose rosse a Margaret Thatcher che lui adorava e che Andreotti detestava. Come dice l’editore Pippo Marra, che negli ultimi vent’anni gli è stato vicino più di chiunque, e lo capì più di tutti, “Presidente , come mi manchi”!
Luigi Bisignani, Il Tempo