Il cestista era sulla nave della Proactiva Open Arms che ha salvato in mare la donna sopravvissuta 48 passate alla deriva: «Quelle persone vanno salvate. Pensando ai miei due figli ho deciso che dovevo fare qualcosa»
In un’intervista a El Pais Gasol ha raccontato i dettagli dell’accaduto ribadendo che le tre persone sulla zattera (due sono morte: una donna e un bambino) erano state abbandonate dai libici: «Abbiamo ascoltato le conversazioni tra una motovedetta della Libia e una nave mercantile che chiedevano di impostare la rotta per una posizione specifica in cui una barca era in pericolo. Poi abbiamo appreso che la motovedetta libica ha riportato i naufraghi in Libia e distrutto la barca in cui erano stati due giorni e due notti. Ma hanno lasciato almeno tre persone abbandonate». E ancora: «All’inizio sembrava che non ci fosse nessuno vivo. Poi siamo arrivati più vicini e abbiamo visto che c’era una donna viva aggrappata con un braccio a un pezzo di legno».
«Provo rabbia, impotenza – aggiunge il giocatore – Ma anche la sensazione di aver contribuito a salvare una vita. Se non fosse stato per il nostro intervento nessuno avrebbe saputo cosa era successo. Si sarebbe detto che i libici avevano salvato 150 persone. Ma la realtà è che hanno lasciato la gente viva in mare. Se fossimo arrivati prima, avremmo potuto salvare più persone. Se invece avessimo ritardato quindici o venti minuti, anche Josephine sarebbe morta». «La situazione è tale che è al di sopra dei miei sentimenti personali – sottolinea ancora il giocatore – Stiamo parlando di atti criminali disumani. Queste persone dovrebbero essere state salvate»
Perché hai deciso di imbarcarti come volontario? Gli chiedono da El Pais: «Non c’è una ragione precisa – racconta – ovviamente la fotografia del bambino siriano morto sulla costa turca nel 2015 ha provocato in me un senso di rabbia e allo stesso tempo mi ha fatto capire che tutti noi dobbiamo fare la nostra parte per fermare queste tragedie. È stato allora che ho incontrato Óscar Camps di Open Arms. Sono rimasto impressionato dalla sua convinzione, dal modo in cui ha messo a disposizione di questa causa tutte le sue risorse economiche, logistiche e personali per aiutare queste persone. Ammiro questo tipo di persone, che fanno qualcosa, che non aspettano che gli altri lo facciano».
«Io ho due figli – conclude i campione – Voglio essere un esempio per loro. E immagino la situazione di un padre che deve affrontare viaggi come questi in cui si rischia tutto per raggiungere un paese dove poter vivere in pace e con dignità. Penso che se fossi al suo posto vorrei che qualcuno mi aiutasse mettendo a disposizione il suo tempo, i suoi soldi, dandomi una mano. Penso che dovremmo tutti contribuire in qualche modo. È molto diverso sentire o leggere che un tot persone sono morte in mare. Molto diverso è vederle, vedere una persona morta e capire che quella persona era il centro del mondo nella vita di qualcuno. E non c’è più. Trovo incredibile che si possa sottovalutare o disprezzare il lavoro di queste organizzazioni, è una mancanza di umanità inaudita».
Corriere.it